Pieve di Scandiano Pieve di Scandiano

Unità pastorale delle Parrocchie della Natività della B.V.M, Santa Teresa, Chiozza, Fellegara, Iano, Pratissolo e San Ruffino
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Ultime Notizie
    • QUARESIMA 2023
      QUARESIMA 2023Ti doniamo questo sussidio sperando possa esserti di aiuto nella preghiera quotidiana. É ormai tradizione che oltre al Vangelo quotidiano, al commento e alle preghiere ci siano in queste pagine anche alcune righe tratte dal magistero del Papa o del Vescovo. Recentemente Papa Francesco ha invitato tutti i fedeli a rileggere le quattro grandi Costituzioni del Concilio Vaticano II come preparazione al Giubileo del 2025. A partire da questa Quaresima vorremmo allora riprendere alcuni stralci di questi testi che circa 60 anni fa hanno dato alla Chiesa la possibilità di iniziare un nuovo cammino. Ecco i titoli e i temi delle costituzioni conciliari: Sacrosantum Concilium sulla Liturgia (1963); Lumen Gentium sulla Chiesa (1964); Dei Verbum sulla Rivelazione (1965); Gaudium et Spes sulla Chiesa nel nostro mondo contemporaneo (1965). Proviamo a riscoprire questi testi e, anche se il linguaggio in alcuni tratti ci sembrerà difficile o lontano, cerchiamo la sostanza che invece rimane ancora da approfondire… davvero infatti nel Concilio lo Spirito ha soffiato rinnovando profondamente la Chiesa. Inizieremo dalla Lumen Gentium. Buon cammino! COME PREGARE Ti suggeriamo di prenderti ogni giorno un po’ di tempo per la preghiera, cercando il silenzio e la calma. Puoi creare un luogo in cui tenere una candela da accendere e un segno di fede (può essere un’immagine di Gesù). Ti consigliamo di iniziare la preghiera con un segno di croce; di leggere con calma i testi riportati; alla fine puoi prolungare la tua preghiera in modo spontaneo, concludendo con il Padre nostro, l’Ave Maria. Al termine della preghiera puoi invocare su di te e sulle persone che hai a cuore la benedizione di Dio con le parole: Ci doni la sua pace e ci benedica Dio, grande nell’amore, che è Padre, Figlio e Spirito Santo.   Domenica IV settimana 19 marzo: Giovanni 9,1-41 In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». «Una cosa so: prima ero cieco e adesso ci vedo». A volte ci capita di pensare che se ci accade qualcosa di brutto, è Dio che ci vuole punire perché abbiamo sbagliato o perché ci siamo comportati male. Al tempo di Gesù molti erano convinti che la malattia fosse una punizione divina: se sgarri, Dio ti punisce privandoti della salute; se nasci malato, hanno peccato i tuoi e Dio ti punisce attraverso i figli. Fortunatamente Gesù scardina quest’opinione e ci fa vedere che l’abbandonato, il reietto giudicato è in realtà colui che viene salvato, guarito e illuminato. La chiave di tutto questo è l’incontro con Gesù, una sorta di sconosciuto benefattore che per giunta sembra essersi pure dileguato nel nulla. È l’esperienza di un incontro che segna un prima e un dopo, che cambia il nostro cammino e che ci permette di vedere quanto ci circonda in modo nuovo: prima ero cieco, solo e peccatore; adesso sono guarito e testimone di vita. Quel cieco nato siamo proprio noi! Passiamo accanto ai miracoli della creazione senza un minimo sussulto di meraviglia; fissiamo gli occhi sul volto delle persone che ci circondano senza intuirne le lacrime nascoste; non conosciamo nemmeno il nostro mondo interiore, incapaci e impauriti di gettare uno sguardo coraggioso nel profondo del nostro animo. Allora facciamo tesoro dell’immagine di quest’uomo, questo ex cieco che accetta il dono Gesù e riparte dalla luce che ha visto e che ha così profondamente inciso la sua umanità. La cecità: è la mia incompiutezza. “Forse me la merito?” Sono cieco… e non capisco! Faccio fatica a capire la realtà di ciò che succede. Faccio fatica a capire gli errori e gli sbagli che commetto. Faccio fatica a vedere le mie qualità, i talenti, le potenzialità, e quelle degli altri. E non mi considero abbastanza. Perché questa insufficienza, incompiutezza? Perché Dio abbia spazio nella mia vita! Perché si manifestino in me e attraverso di me le opere di Dio! La mia incompiutezza esiste perché Dio mi riempia di sé e mi porti alla pienezza. La pienezza non è la perfezione umana ma è godere del suo amore che ricrea, che rinnova e che illumina. Oh Gesù donami la grazia di riconoscermi cieco, insufficiente, incompiuto, mancante: di Dio e degli altri. Ho bisogno di essere amato e perdonato. Donami, Signore, di vedere oltre il visibile, oltre la mia prospettiva. Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma « distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui » (1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: « A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio » (1 Cor 12,7). E questi carismi, dai più straordinari a quelli più semplici e più largamente diffusi, siccome sono soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione. (n.12) Scarica il Sussidio...
    • 45° Giornata nazionale per la Vita
      45° Giornata nazionale per la VitaSi celebra domenica 5 febbraio la 45° Giornata nazionale per la Vita promossa dal Consiglio Episcopale Permanente della CEI. Il tema scelto per quest’anno è «La morte non è mai una soluzione. “Dio ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte” (Sap 1,14)». Il diffondersi di una “cultura di morte” In questo nostro tempo, quando l’esistenza si fa complessa e impegnativa, quando sembra che la sfida sia insuperabile e il peso insopportabile, sempre più spesso si approda a una “soluzione” drammatica: dare la morte. Certamente a ogni persona e situazione sono dovuti rispetto e pietà, con quello sguardo carico di empatia e misericordia che scaturisce dal Vangelo. Siamo infatti consapevoli che certe decisioni maturano in condizioni di solitudine, di carenza di cure, di paura dinanzi all’ignoto… È il mistero del male che tutti sgomenta, credenti e non. Ciò, tuttavia, non elimina la preoccupazione che nasce dal constatare come il produrre morte stia progressivamente diventando una risposta pronta, economica e immediata a una serie di problemi personali e sociali. Tanto più che dietro tale “soluzione” è possibile riconoscere importanti interessi economici e ideologie che si spacciano per ragionevoli e misericordiose, mentre non lo sono affatto. Quando un figlio non lo posso mantenere, non l’ho voluto, quando so che nascerà disabile o credo che limiterà la mia libertà o metterà a rischio la mia vita… la soluzione è spesso l’aborto. Quando una malattia non la posso sopportare, quando rimango solo, quando perdo la speranza, quando vengono a mancare le cure palliative, quando non sopporto veder soffrire una persona cara… la via d’uscita può consistere nell’eutanasia o nel “suicidio assistito”. Quando la relazione con il partner diventa difficile, perché non risponde alle mie aspettative… a volte l’esito è una violenza che arriva a uccidere chi si amava – o si credeva di amare –, sfogandosi persino sui piccoli e all’interno delle mura domestiche. Quando il male di vivere si fa insostenibile e nessuno sembra bucare il muro della solitudine… si finisce non di rado col decidere di togliersi la vita. Quando l’accoglienza e l’integrazione di chi fugge dalla guerra o dalla miseria comportano problemi economici, culturali e sociali… si preferisce abbandonare le persone al loro destino, condannandole di fatto a una morte ingiusta. Quando si acuiscono le ragioni di conflitto tra i popoli… i potenti e i mercanti di morte ripropongono sempre più spesso la “soluzione” della guerra, scegliendo e propagandando il linguaggio devastante delle armi, funzionale soprattutto ai loro interessi. Così, poco a poco, la “cultura di morte” si diffonde e ci contagia. Per una “cultura di vita” Il Signore crocifisso e risorto – ma anche la retta ragione – ci indica una strada diversa: dare non la morte ma la vita, generare e servire sempre la vita. Ci mostra come sia possibile coglierne il senso e il valore anche quando la sperimentiamo fragile, minacciata e faticosa. Ci aiuta ad accogliere la drammatica prepotenza della malattia e il lento venire della morte, schiudendo il mistero dell’origine e della fine. Ci insegna a condividere le stagioni difficili della sofferenza, della malattia devastante, delle gravidanze che mettono a soqquadro progetti ed equilibri… offrendo relazioni intrise di amore, rispetto, vicinanza, dialogo e servizio. Ci guida a lasciarsi sfidare dalla voglia di vivere dei bambini, dei disabili, degli anziani, dei malati, dei migranti e di tanti uomini e donne che chiedono soprattutto rispetto, dignità e accoglienza. Ci esorta a educare le nuove generazioni alla gratitudine per la vita ricevuta e all’impegno di custodirla con cura, in sé e negli altri. Ci muove a rallegrarci per i tanti uomini e le donne, credenti di tutte le fedi e non credenti, che affrontano i problemi producendo vita, a volte pagando duramente di persona il loro impegno; in tutti costoro riconosciamo infatti l’azione misteriosa e vivificante dello Spirito, che rende le creature “portatrici di salvezza”. A queste persone e alle tante organizzazioni schierate su diversi fronti a difesa della vita va la nostra riconoscenza e il nostro incoraggiamento.  Ma poi, dare la morte funziona davvero? D’altra parte, è doveroso chiedersi se il tentativo di risolvere i problemi eliminando le persone sia davvero efficace. Siamo sicuri che la banalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza elimini la ferita profonda che genera nell’animo di molte donne che vi hanno fatto ricorso? Donne che, in moltissimi casi, avrebbero potuto essere sostenute in una scelta diversa e non rimpianta, come del resto prevedrebbe la stessa legge 194 all’art.5. È questa la consapevolezza alla base di un disagio culturale e sociale che cresce in molti Paesi e che, al di là di indebite polarizzazioni ideologiche, alimenta un dibattito profondo volto al rinnovamento delle normative e al riconoscimento della preziosità di ogni vita, anche quando ancora celata agli occhi: l’esistenza di ciascuno resta unica e inestimabile in ogni sua fase. Siamo sicuri che il suicidio assistito o l’eutanasia rispettino fino in fondo la libertà di chi li sceglie – spesso sfinito dalla carenza di cure e relazioni – e manifestino vero e responsabile affetto da parte di chi li accompagna a morire? Siamo sicuri che la radice profonda dei femminicidi, della violenza sui bambini, dell’aggressività delle baby gang… non sia proprio questa cultura di crescente dissacrazione della vita? Siamo sicuri che dietro il crescente fenomeno dei suicidi, anche giovanili, non ci sia l’idea che “la vita è mia e ne faccio quello che voglio?” Siamo sicuri che la chiusura verso i migranti e i rifugiati e l’indifferenza per le cause che li muovono siano la strategia più efficace e dignitosa per gestire quella che non è più solo un’emergenza? Siamo sicuri che la guerra, in Ucraina come nei Paesi dei tanti “conflitti dimenticati”, sia davvero capace di superare i motivi da cui nasce? «Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione» (Francesco, Omelia al sacrario di Redipuglia, 13 settembre 2014). La “cultura di morte”: una questione seria Dare la morte come soluzione pone una seria questione etica, poiché mette in discussione il valore della vita e della persona umana. Alla fondamentale fiducia nella vita e nella sua bontà – per i credenti radicata nella fede – che spinge a scorgere possibilità e valori in ogni condizione dell’esistenza, si sostituisce la superbia di giudicare se e quando una vita, foss’anche la propria, risulti degna di essere vissuta, arrogandosi il diritto di porle fine. Desta inoltre preoccupazione il constatare come ai grandi progressi della scienza e della tecnica, che mettono in condizione di manipolare ed estinguere la vita in modo sempre più rapido e massivo, non corrisponda un’adeguata riflessione sul mistero del nascere e del morire, di cui non siamo evidentemente padroni. Il turbamento di molti dinanzi alla situazione in cui tante persone e famiglie hanno vissuto la malattia e la morte in tempo di Covid ha mostrato come un approccio meramente funzionale a tali dimensioni dell’esistenza risulti del tutto insufficiente. Forse è perché abbiamo perduto la capacità di comprendere e fronteggiare il limite e il dolore che abitano l’esistenza, che crediamo di porvi rimedio attraverso la morte? Rinnovare l’impegno La Giornata per la vita rinnovi l’adesione dei cattolici al “Vangelo della vita”, l’impegno a smascherare la “cultura di morte”, la capacità di promuovere e sostenere azioni concrete a difesa della vita, mobilitando sempre maggiori energie e risorse. Rinvigorisca una carità che sappia farsi preghiera e azione: anelito e annuncio della pienezza di vita che Dio desidera per i suoi figli; stile di vita coniugale, familiare, ecclesiale e sociale, capace di seminare bene, gioia e speranza anche quando si è circondati da ombre di morte. Roma, 21 settembre 2022 IL CONSIGLIO EPISCOPALE PERMANENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA...
    • Lettere dall’Amazzonia – Dicembre 2022
      Lettere dall’Amazzonia – Dicembre 2022DICEMBRE 2022 Diocesi Alto Solimões Parrocchia Santo Antonio do Içà – Amazonas Cappella di Nostra Signora di Guadalupe Costruzione: agosto, settembre, ottobre 2022 Leggi la Lettera     OTTOBRE 2022 MUSICA IN AMAZZONIA Un caro saluto a tutti gli amici che in Italia stanno accompagnando la nostra missione. Nella nostra proposta di attività extra-scolastica per i ragazzi, che abbiamo chiamato “Kurumim e kunhatã içaenses” – ragazzi e ragazze di S.Antonio do Içà- oltre allo sport (la maggior parte delle richieste sono in ambito sportivo) abbiamo anche lezioni di musica: tastiera e chitarra, per ora a livello di base, molto semplice. Anche anni fa, quando iniziò questo progetto parrocchiale con i cappuccini, decine di ragazzi hanno frequentato le lezioni di musica; ho però fatto notare che non abbiamo quasi nessuno che suona nelle nostre liturgie come mai questi ragazzi non sono stati inseriti nella animazione delle celebrazioni nelle comunità? La risposta é stata: il 99% suona nelle chiese protestanti, neopentecostali! Niente di male, mi sono detto, il nostro progetto per i ragazzi é aperto a tutti: cattolici, protestanti, fraternità della Croce ecc… Eppure, in quanto Chiesa cattolica, dobbiamo preoccuparci di fare buone celebrazioni, di animare bene le nostre messe, e il canto e gli strumenti sono molto importanti. La musica e il canto contribuiscono immensamente per la bellezza di una celebrazione; e come ben sappiamo coinvolgono parti di noi che il linguaggio solo parlato non coinvolge. Grazie al canto, il nostro corpo, con la la nostra emotività, partecipa alla celebrazione ad un livello e con una profondità assolutamente non possibili per la sola lingua parlata. Il canto comunitario unisce la assemblea più che una preghiera recitata; e la musica muove in noi qualcosa che non può essere espresso a parole, ma che lascia un segno profondo nella nostra memoria, più che i concetti. Ho pensato che si doveva fare qualcosa per formare qualcuno alla animazione musicale delle nostre liturgie cattoliche; insegnare a suonare e cantare per poi dare vita a buone celebrazioni. Ne ho parlato diverse volte con i pochi suonatori che abbiamo: perché non proporre una scuola di musica finalizzata al servizio nelle nostre comunità cattoliche? Fare una proposta ben chiara, con una finalità esplicita: un servizio alla liturgia cattolica. Passano i mesi, le nostre forze sono limitate e non si fa nulla, finché Elvis si prende l’impegno di progettare una proposta. La difficoltà maggiore per noi é che a Santo Antonio mancano professori di musica; viene contattato un musicista di Manaus; é disponibile a lavorare tre mesi da noi, per un insegnamento iniziale di teoria musicale e canto corale; altri avrebbero dato lezioni di chitarra, tastiera, percussioni. Così é stato; ragazzi e qualche adulto hanno iniziato questo percorso musicale, con una prima parte – faticosa per loro, ma utile- sulla teoria musicale. Grazie a un aiuto dall’Italia siamo riusciti a pagare il professore e a comprare qualche strumento. Non siamo riusciti ad accogliere tutte le richieste (non é stato possibile raggiungere le varie comunità ma ci siamo limitati al centro città) e ora dovremmo continuare con i pochi strumentisti che abbiamo a Santo Antonio; ci stiamo organizzando per capire se e come dare continuità. Il mio desiderio é di rimanere fedeli al nostro progetto iniziale, sia sul piano musicale che liturgico. Se arriverà qualche aiuto, oltre alle lezioni, potremo comprare anche alcuni strumenti (chitarre e tastiere) per i ragazzi più dotati e più disponibili nel servizio. Per ora siamo ancora ad un livello iniziale, estremamente semplice, di base, ma speriamo poter continuare, offrendo una possibilità ai ragazzi di imparare a suonare e celebrare. Grazie a tutti. Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 23 ottobre 2022       AGOSTO 2022 NS DI GUADALUPE: lavori in corso La comunità di NS di Guadalupe è una delle comunità cittadine, ma un pó fuori dal centro, e già tra la vegetazione della foresta; la visione della natura affascina. Abbiamo due comunità vicine, San Salvador e San Gabriel; san Gabriel è quasi interamente abitata da famiglie della religione della Croce-Cruzada un misto tra cattolicesimo, evangelismo, ebraismo ma che si propone come la ultima e definitiva rivelazione di Dio); in San Salvador ci sono protestanti e cattolici e la comunità è stata dedicata a Maria, NS di Guadalupe. Una ventina di famiglie, con le case in mezzo agli alberi ma anche vicine al fiume e non distanti dal paese. Una comunità di etnia indigena Kokama; poche famiglie ma che partecipano con fedeltà: circa 25-30 persone alla messa domenicale e una decina il venerdì quando facciamo la Lectio Divina. Per passare dalla città alla comunità bisogna attraversare due ponti di legno che erano malmessi, con le assi rotte o mancanti e pericolo soprattutto per i bambini. Dopo sollecitazioni al sindaco da parte di don Gabriele Carlotti, un ponte è stato riparato ( anche se ha già ceduto in un punto); per l’altro il responsabile della comunità (cacique) ha tentato di parlare con il sindaco ma non è stato ricevuto. Così abbiamo deciso di aiutare la comunità a ricostruirsi il ponte, pagando il legname che serviva. E così in gruppo hanno ricostruito la parte rovinata e pericolosa del ponte. Inoltre da tempo si parlava di rinnovare la cappella, che in effetti aveva bisogno di una sistemazione: il tetto doveva essere rifatto in toto; le travi di legno erano tutte piene di buchi; la cappella era aperta, con la impossibilità di lasciare dentro qualcosa perché ci sono sempre molti ladri in giro! La facciata non aveva proprio l’aspetto di una cappella; abbiamo inoltre visto che si poteva ampliare un poco, cioè allungare di 3 metri, costruire una piccola sacristia- deposito, e una copertura a lato della cappella per eventuali incontri. Abbiamo parlato con la comunità e fatto un progetto tentando di limitare le spese, ma in corso di opera appaiono nuove necessità: si scopre che non era state fatte fondamenta, i muri cioè poggiavano semplicemente sulla terra. E dunque bisogna rifare tutto, scavare le fondamenta, mettere il cemento e rifare tutti i muri… di fatto la costruzione di una nuova chiesa al posto della vecchia, e di uno spazio per incontri. Un lavoro necessario è stata la rimozione della terra addossata al retro della cappella per spostarla di fianco e costruire lo spazio per incontri. In realtà non sono grandi cose, ma siamo sul limitare della foresta, e la ruspa, la betoniera, i camion non possono arrivare qui. Il trasporto per attraversare i ponti viene fatto a mano o con un piccolo automezzo a 3 ruote; scavare e trasportare la terra: tutto a mano, col badile. Nelle prime settimane la necessità di molti operai per questi lavori di base per poi continuare con qualche muratore più esperto e molti aiutanti. Abbiamo dato lavoro a 30 persone della comunità ( in maggioranza giovani); la comunità vive di pesca e qualche coltivazione per la sopravvivenza della famiglia, non hanno soldi, così stiamo costruendo con le offerte che ci arrivano dall’Italia tramite il Centro Missionario. Cerco di far fare alla comunità anche qualche giorno di lavoro volontario, anche se non è molto facile perché il servizio gratuito non è un dato spontaneo…. Ma insisto nel proporlo. Ora che i muri sono stati innalzati, aspettiamo che arrivino da Manaus, via nave, le parti di ferro e alluminio per la copertura. Per ora abbiamo speso 20.000reais per materiali( mattoni, cemento, sabbia, legname..) e 25.000 per i muratori e operai vari, circa 9.500 euro. Dovrà arrivare tutto il materiale per il tetto ( altri 20.000 reais) e il lavoro per la pavimentazione, la facciata con la torre per la campana, intonacare, imbiancare, mettere le porte e finestre e pensare alla sistemazione interna della cappella. Ci teniamo a portare avanti questo lavoro per dare comunque un riferimento a questa comunità piccola ma tra le più fedeli nella nostra parrocchia. Gli spazi per la vita della comunità, come ben sapete, sono importanti, per questo ci stiamo dedicando alla costruzione di varie cappelle, anche per essere un segno visibile nei vari quartieri, accanto a innumerevoli cappelle dei gruppi evangelici neo-pentecostali . Un caro saluto riconoscente Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 25 agosto 2022     LUGLIO 2022 PIRATI, NARCOTRAFFICO E SPERANZA NELLO SPIRITO Si, i pirati ci sono ancora e assaltano le barche nel Rio delle Amazzoni, nella regione dove abitiamo. Negli ultimi giorni, nel nostro ‘pezzetto’ del Rio delle Amazzoni ( o Rio Solimões) stiamo assistendo ad una serie di tragici eventi: la morte di diverse persone, uccise in modo brutale. Ieri un pirata ucciso a Tonantins, lunedì scorso 5 trovati morti sulla riva del fiume, a pochi kilometri dal centro di Santo Antonio, sabato scorso altri 5 trovati uccisi; domenica una sparatoria con morti davanti alla chiesa di S.Francesco, qualche giorno fa nel corso di una sparatoria 10 sono stati uccisi, alcuni di Santo Antonio, altri di Tonantins, altri ancora nella zona di Jutaí…. Tonantins e Amaturá sono i paesi nostri vicini, a 20-30 km di distanza. A Tonantins ora hanno il coprifuoco, vietato uscire alla sera dalle 21. È anche arrivato una grossa squadra di polizia speciale….. Cosa sta succedendo? I pirati sono, per la maggior parte, giovani dei nostri paesi che con barche abbastanza veloci- di solito rubate- bloccano le imbarcazioni che stanno viaggiando sul Rio delle Amazzoni per rubare merci, soldi, benzina… tutto quello che riescono a trovare. E spesso non si limitano a rubare, ma terrorizzano le persone, usano violenza e anche uccidono. La polizia locale a volte cerca di intercettarli, ci sono scontri con armi da fuoco e, potete ben intuire, feriti e morti. Quando capita che qualche pirata venga catturato, la popolazione, stanca di tanti soprusi, sfoga la propria rabbia: a Tonantins due sono stati presi e bruciati, a volte si trovano i corpi squartati. La situazione diventa sempre più tragica a causa della droga. Come sapete noi siamo nella zona di confine con Perù e Colombia e dalla Colombia arrivano in Brasile, tonnellate di cocaina via fiume. I trafficanti – spesso i più ricchi e ‘rispettabili’ dei nostri paesi- hanno dei guadagni incredibili; organizzano le spedizioni di cocaina che arriva a Manaus via fiume, poi verso Europa, Stati Uniti, Asia… Nel tratto di fiume della nostra regione agiscono i pirati, assaltano le navi che trasportano droga e rubano il carico prezioso, scatenando- ovviamente- le ire dei trafficanti, uomini senza scrupoli e crudeli quando i loro piani trovano ostacoli. Il narcotraffico, con i loro soldati, sta ora cercando di intercettare e possibilmente ammazzare i pirati. Tonnellate di cocaina sono state rubate in questi mesi e quindi la rabbia è grande, e la violenza si scatena. Gli scontri che avvengono in questi giorni sono quindi principalmente tra trafficanti di droga e pirati e qualche volta la polizia quando individua gli uni o gli altri. La tendenza è quella di ammazzare i rivali, senza pietà. Ho ascoltato su Whatsapp un audio di uno dei capi del traffico di droga, con parole violente e offensive, minacciando di morte i pirati e tutti coloro che si mettono contro i loro interessi; minacciava di morte i sindaci dei nostri paese e le loro famiglie. La nostra gente è impaurita e disorientata, in certe zone uscire con la barca è diventato pericoloso, più che a Santo Antonio, nel comune confinante di Tonantins. La speranza è che questo nuovo contingente di polizia possa frenare la ondata di violenza. Ma sappiamo che ci sono molte persone coinvolte, e molti problemi alla base della violenza, degli omicidi… i pirati e i corrieri della droga sono le persone più povere, spesso disperate, consapevoli che stanno rischiando la prigione e la vita, e pronti a tutto, ormai senza timore di nulla e senza rispetto per nessuno. E ci sono i medi e grandi trafficanti: rispettabili benestanti o autorità delle nostre città; e insieme a poliziotti di valore, ce ne sono alcuni coinvolti nel narcotraffico, sequestrano la droga per poi rivenderla… insomma, una vecchia storia, che si ripete in tante zone del mondo! In città stiamo constatando che cresce l’uso di varie droghe tra gli adolescenti…. E ci chiediamo: quanto la società vuole veramente combattere questa cultura di morte? Abbiamo la volontà di arrivare a colpire chi sta ai vertici del narcotraffico – e non sono i poveracci che accettano di fare il trasporto della droga? Si deve lavorare a livello della offerta di droga, bloccare il narcotraffico, ma anche sul versante della domanda: perché tanti cercano le droghe? Senza la domanda, il traffico di droga verrebbe bloccato in modo naturale. Come formare una cultura diversa? Il tema riguarda il mondo intero, non solo i nostri piccoli paesi. Sono convinto che alla base ci sia sempre una questione spirituale: la ricerca di droga è una ricerca spirituale, una ricerca di salvezza, una ricerca di felicità, una ricerca di vita…… però in questo caso l’esito della ricerca è la morte. La violenza grave che si scatena riguarda un ristretto numero di persone, ma alcool e altre droghe invadono le nostre strade, le nostre case e stanno distruggendo le nostre famiglie. Stiamo tentando di ripartire con 2 gruppi di auto-aiuto, uno dei cosiddetti ‘narcotici anonimi’ e un altro legato alla Chiesa cattolica, cercando persone adatte e disponibili a seguire questa realtà complessa. Una goccia nel mare ma almeno si potrebbe costituire un riferimento per chi cerca aiuto. La scuola organizza le settimane di prevenzione alle droghe, e abbiamo concluso con una mattinata di incontro nella palestra della parrocchia, ascoltando anche le proposte dei ragazzi (loro hanno chiesto alle autorità di essere rigidi e multare chi vende alcoolici ai minori, fino a chiudere il locale se continua nella infrazione. Chiedono anche più vigilanza nelle strade, specialmente la notte dei fine-settimana). Non sono dei semplici incontri che risolvono la situazione se non abbiamo una forte volontà politica e una maturazione anche spirituale. Sono troppi gli interessi in gioco, e molti in città sono cresciuti e crescono grazie alla droga. Per quel che noi possiamo fare, penso che la pastorale ordinaria della parrocchia, con la celebrazione dei sacramenti, la catechesi, il servizio, la evangelizzazione a diversi livelli, la condivisione comunitaria è una grande forza di vita che potrà contrastare la cultura di morte del narcotraffico. Don Gabriele Burani – missionario diocesano in Amazzonia Santo Antonio do Içá, 14 luglio 2022     Leggi le altre lettere...
    • BUON ANNO !!
      BUON ANNO !!LVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2023 NESSUNO PUO’ SALVARSI DA SOLO RIPARTIRE DAL COVID-19 PER TRACCIARE INSIEME SENTIERI DI PACE «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi 5,1-2). Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.   Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle.   Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza.   Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà.   Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento.   Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità. Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?   Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre.   Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza.   Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità. Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante.   Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23). Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.   Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.   Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero. Dal Vaticano, 8 dicembre 2022 Papa Francesco...
    • BUON NATALE 2022
      BUON NATALE 2022Dal Vangelo secondo Luca  (2, 1-14) In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». L’Angelo del Signore ci annuncia una grande gioia che sarà per tutti, è nato per noi il Salvatore che è Cristo Signore. La salvezza, dono di amore gratuito si compie nella semplicità di un bambino che nasce in una mangiatoia. Sono i pastori a vegliare su di lui. Dio entra nel mondo dal basso in modo che nessuno sia escluso, tutti si possono sentire abbracciati, amati. La nascita di Gesù vuole la mia nascita, il mio rinnovamento che tenda a lui. Accogliamo e riconosciamo questa grande gioia nel nostro cuore, portandola a compimento nella vita. Nei racconti del Natale, nel Vangelo che ascolteremo nel giorno dell’Epifania, I Magi andranno a adorare il bambino portando i loro doni: oro, incenso e mirra. In questa notte, sono i Pastori, povera gente, ad andare a adorare Gesù, e sembrano andarci a mani vuote. Non hanno nulla da portare, se non l’annuncio che hanno udito dagli angeli e che ora riferiscono a Maria e a Giuseppe, agli altri presenti. Ma oltre a questa parola, portano loro stessi, la loro vita, tutto ciò che sono e che ora alberga nel loro cuore. Persino le loro ombre e il loro peccato. Tutto ciò che siamo, possiamo e dobbiamo portarlo al Signore; possiamo a Lui donarlo, perché Lui ci offre la sua luce, in questo misterioso scambio di doni che fa sì che anche la notte diventi per tutti una notte luminosa. Non c’è nulla nella nostra vita che Gesù non desideri ricevere in dono da noi, che non sia in grado di accogliere o di trasformare. Da noi uomini ha accolto persino il legno della croce e lo ha trasformato nel trono della sua gloria, in una sorgente di vita per tutti. Non c’è nulla che egli non possa accogliere da noi per trasformarlo nel suo dono per noi.  ...
    • AVVENTO 2022
      AVVENTO 2022Il tempo liturgico dell’Avvento ci dà la possibilità di vivere un mistero grande della nostra fede, l’incontro con il Signore che viene incontro all’uomo per portare vita, salvezza, speranza. La parola di Dio ci consegna questa buona notizia: il Verbo si è fatto carne, venne ad abitare in mezzo a noi, veniva nel mondo la luce vera, un bimbo è nato per voi, egli salverà il suo popolo dai suoi peccati, sarà grande e verrà chiamato figlio dell’altissimo. E noi abbiamo visto la sua salvezza, luce per illuminare gli uomini. L’Avvento ci ricorda che oggi è il giorno di questo incontro, oggi è il giorno della salvezza. Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno. Come i magi, anche noi ci mettiamo in cammino per contemplare il Dono di Dio.   Ti suggeriamo di prenderti ogni giorno un po’ di tempo per la preghiera, cercando il silenzio e la calma. Puoi creare un luogo in cui tenere una candela da accendere e un segno di fede (può essere un’immagine di Gesù). Ti consigliamo di iniziare la preghiera con un segno di croce e uno degli inni riportati di seguito; di leggere con calma i testi; alla fine puoi prolungare la tua preghiera in modo spontaneo, concludendo con il Padre nostro, l’Ave Maria. Al termine della preghiera puoi invocare su di te e sulle persone che hai a cuore la benedizione di Dio con le parole:         Ci doni la sua pace e ci benedica Dio, grande nell’amore, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Quarta  settimana di Avvento Viene il Salvator sulla terra, nasce la speranza nei cuori, brilla nella notte una luce, presto nascerà un bambino; dal deserto un grido giunge fino a noi: “Preparate i vostri cuori al Signore”.   Suscita, Signore, la pace, donaci il tuo regno d’amore, vedano le genti la luce, lodino il tuo nome per sempre. La tua sposa attende, con sincera fede, che dal Cielo presto ritorni. Sabato 24 dicembre Dal Vangelo secondo Luca  (1, 67-79) In quel tempo, Zaccarìa, padre di Giovanni, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un Salvatore potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». Zaccaria è stato reso muto perché non ha creduto alla parola dell’angelo, all’onnipotenza di colui che gli faceva una promessa di paternità. Ora, alla nascita del suo bambino, profetizza l’incontro con la fedeltà di Dio che cambia la direzione della vita e lo sguardo sulle cose. Dopo la crisi, Dio lo ha reso capace di riconoscere la meraviglia che ha compiuto e che sta compiendo per la salvezza del suo popolo. Con questo canto, Zaccaria invita anche noi a guardare le cose con lo sguardo di Dio e ci apre alla gratitudine per quanto compie in noi, per noi e tra di noi. Dio tra poche ore non sarà più una promessa, ma sarà finalmente QUALCUNO DA INCONTRARE. È il volto di Gesù la vera terra promessa, il vero luogo dove ogni uomo può sperimentare la condizione di libertà. Per riconoscere questo, facciamo silenzio e apriamo gli occhi del nostro cuore per ascoltare e accogliere il mistero che stiamo per celebrare e che viene a noi come il sole che sorge dopo una lunga notte. Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte. In questi ultimi giorni di Avvento fino al giorno del Natale oltre al commento al Vangelo del giorno di seguito riportiamo un’omelia di fr. Adalberto Piovano, suddivisa in 4 parti, che ci può essere di aiuto nel vivere e celebrare il mistero della venuta di Gesù nel mondo e nella nostra vita. Il mistero del Natale celebra questo misterioso scambio. La luce di Dio entra nella nostra notte e la nostra notte diventa luminosa. Come ci ricorda la tradizione patristica, il figlio di Dio nasce come Figlio dell’uomo, e noi rinasciamo come figli di Dio. A Natale siamo soliti scambiarci dei doni, ma il primo e fondamentale scambio è quello che noi viviamo con Dio stesso: noi doniamo al suo Figlio la nostra carne, e lui ci dona di rinascere come figli di Dio. Nella preghiera sulle offerte nell’eucaristia nella notte osiamo dire: “ti sia gradita, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo scambio di doni trasformaci in Cristo tuo figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria”. Questa invocazione è molto audace. Non si limita a chiedere di trasformare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo, ma si spinge a chiedere che tutti noi siamo trasformati in Cristo, che tutti noi diventiamo un solo corpo, il corpo di Cristo, innalzato nella gloria del Padre. C’è di più: la preghiera chiede che questa trasformazione avvenga “per questo scambio di doni”. In forza cioè di un dono scambiato. C’è qualcosa che Dio offre a noi, c’è qualcosa che noi offriamo a Dio. Che cosa mai possiamo offrirgli? Dio, in Gesù, ci offre se stesso. Dunque anche noi siamo chiamati a offrire noi stessi. Nient’altro che noi stessi.   Scarica il Sussidio Avvento 2022 Questo sussidio può essere uno strumento utile per la preghiera nel tempo di Avvento, che si compirà con la celebrazione del Natale del Signore. In esso troverai il vangelo del giorno, un commento e una preghiera preparati da diverse persone delle nostre comunità, una parte della lettera “Un cuor solo, un’anima sola” che il vescovo Giacomo ha scritto alla nostra diocesi ad inizio anno pastorale. Buon cammino! Le comunità della Pieve...
    • VI GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
      VI GIORNATA MONDIALE DEI POVERIMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO VI GIORNATA MONDIALE DEI POVERI Domenica XXXIII del Tempo Ordinario 13 novembre 2022 Gesù Cristo si è fatto povero per voi (cfr 2 Cor 8,9)   1. «Gesù Cristo si è fatto povero per voi» (cfr 2 Cor 8,9). Con queste parole l’apostolo Paolo si rivolge ai primi cristiani di Corinto, per dare fondamento al loro impegno di solidarietà con i fratelli bisognosi. La Giornata Mondiale dei Poveri torna anche quest’anno come sana provocazione per aiutarci a riflettere sul nostro stile di vita e sulle tante povertà del momento presente. Qualche mese fa, il mondo stava uscendo dalla tempesta della pandemia, mostrando segni di recupero economico che avrebbe restituito sollievo a milioni di persone impoverite dalla perdita del lavoro. Si apriva uno squarcio di sereno che, senza far dimenticare il dolore per la perdita dei propri cari, prometteva di poter tornare finalmente alle relazioni interpersonali dirette, a incontrarsi di nuovo senza più vincoli o restrizioni. Ed ecco che una nuova sciagura si è affacciata all’orizzonte, destinata ad imporre al mondo un scenario diverso. La guerra in Ucraina è venuta ad aggiungersi alle guerre regionali che in questi anni stanno mietendo morte e distruzione. Ma qui il quadro si presenta più complesso per il diretto intervento di una “superpotenza”, che intende imporre la sua volontà contro il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Si ripetono scene di tragica memoria e ancora una volta i ricatti reciproci di alcuni potenti coprono la voce dell’umanità che invoca la pace. 2. Quanti poveri genera l’insensatezza della guerra! Dovunque si volga lo sguardo, si constata come la violenza colpisca le persone indifese e più deboli. Deportazione di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, per sradicarle e imporre loro un’altra identità. Ritornano attuali le parole del Salmista di fronte alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio dei giovani ebrei: «Lungo i fiumi di Babilonia / là sedevamo e piangevamo / ricordandoci di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre, / perché là ci chiedevano parole di canto, / coloro che ci avevano deportato, / allegre canzoni i nostri oppressori. / Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?» (Sal 137,1-4). Sono milioni le donne, i bambini, gli anziani costretti a sfidare il pericolo delle bombe pur di mettersi in salvo cercando rifugio come profughi nei Paesi confinanti. Quanti poi rimangono nelle zone di conflitto, ogni giorno convivono con la paura e la mancanza di cibo, acqua, cure mediche e soprattutto degli affetti. In questi frangenti la ragione si oscura e chi ne subisce le conseguenze sono tante persone comuni, che vengono ad aggiungersi al già elevato numero di indigenti. Come dare una risposta adeguata che porti sollievo e pace a tanta gente, lasciata in balia dell’incertezza e della precarietà? 3. In questo contesto così contraddittorio viene a porsi la VI Giornata Mondiale dei Poveri, con l’invito – ripreso dall’apostolo Paolo – a tenere lo sguardo fisso su Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). Nella sua visita a Gerusalemme, Paolo aveva incontrato Pietro, Giacomo e Giovanni i quali gli avevano chiesto di non dimenticare i poveri. La comunità di Gerusalemme, in effetti, si trovava in gravi difficoltà per la carestia che aveva colpito il Paese. E l’Apostolo si era subito preoccupato di organizzare una grande colletta a favore di quei poveri. I cristiani di Corinto si mostrarono molto sensibili e disponibili. Su indicazione di Paolo, ogni primo giorno della settimana raccolsero quanto erano riusciti a risparmiare e tutti furono molto generosi. Come se il tempo non fosse mai trascorso da quel momento, anche noi ogni domenica, durante la celebrazione della santa Eucaristia, compiamo il medesimo gesto, mettendo in comune le nostre offerte perché la comunità possa provvedere alle esigenze dei più poveri. È un segno che i cristiani hanno sempre compiuto con gioia e senso di responsabilità, perché nessun fratello e sorella debba mancare del necessario. Lo attestava già il resoconto di San Giustino, che, nel secondo secolo, descrivendo all’imperatore Antonino Pio la celebrazione domenicale dei cristiani, scriveva così: «Nel giorno chiamato “del Sole” ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei profeti finché il tempo lo consente. Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli elementi consacrati e attraverso i diaconi se ne manda agli assenti. I facoltosi e quelli che lo desiderano danno liberamente, ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il sacerdote. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, i carcerati, gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno» (Prima Apologia, LXVII, 1-6). 4. Tornando alla comunità di Corinto, dopo l’entusiasmo iniziale il loro impegno cominciò a venire meno e l’iniziativa proposta dall’Apostolo perse di slancio. È questo il motivo che spinge Paolo a scrivere in maniera appassionata rilanciando la colletta, «perché, come vi fu la prontezza del volere, così vi sia anche il compimento, secondo i vostri mezzi» (2 Cor 8,11). Penso in questo momento alla disponibilità che, negli ultimi anni, ha mosso intere popolazioni ad aprire le porte per accogliere milioni di profughi delle guerre in Medio Oriente, in Africa centrale e ora in Ucraina. Le famiglie hanno spalancato le loro case per fare spazio ad altre famiglie, e le comunità hanno accolto con generosità tante donne e bambini per offrire loro la dovuta dignità. Tuttavia, più si protrae il conflitto, più si aggravano le sue conseguenze. I popoli che accolgono fanno sempre più fatica a dare continuità al soccorso; le famiglie e le comunità iniziano a sentire il peso di una situazione che va oltre l’emergenza. È questo il momento di non cedere e di rinnovare la motivazione iniziale. Ciò che abbiamo iniziato ha bisogno di essere portato a compimento con la stessa responsabilità. 5. La solidarietà, in effetti, è proprio questo: condividere il poco che abbiamo con quanti non hanno nulla, perché nessuno soffra. Più cresce il senso della comunità e della comunione come stile di vita e maggiormente si sviluppa la solidarietà. D’altronde, bisogna considerare che ci sono Paesi dove, in questi decenni, si è attuata una crescita di benessere significativo per tante famiglie, che hanno raggiunto uno stato di vita sicuro. Si tratta di un frutto positivo dell’iniziativa privata e di leggi che hanno sostenuto la crescita economica congiunta a un concreto incentivo alle politiche familiari e alla responsabilità sociale. Il patrimonio di sicurezza e stabilità raggiunto possa ora essere condiviso con quanti sono stati costretti a lasciare le loro case e il loro Paese per salvarsi e sopravvivere. Come membri della società civile, manteniamo vivo il richiamo ai valori di libertà, responsabilità, fratellanza e solidarietà. E come cristiani, ritroviamo sempre nella carità, nella fede e nella speranza il fondamento del nostro essere e del nostro agire. 6. È interessante osservare che l’Apostolo non vuole obbligare i cristiani costringendoli a un’opera di carità. Scrive infatti: «Non dico questo per darvi un comando» (2 Cor 8,8); piuttosto, egli intende «mettere alla prova la sincerità» del loro amore nell’attenzione e premura verso i poveri (cfr ibid.). A fondamento della richiesta di Paolo sta certamente la necessità di aiuto concreto, tuttavia la sua intenzione va oltre. Egli invita a realizzare la colletta perché sia segno dell’amore così come è stato testimoniato da Gesù stesso. Insomma, la generosità nei confronti dei poveri trova la sua motivazione più forte nella scelta del Figlio di Dio che ha voluto farsi povero Lui stesso. L’Apostolo, infatti, non teme di affermare che questa scelta di Cristo, questa sua “spogliazione”, è una «grazia», anzi, «la grazia del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Cor 8,9), e solo accogliendola noi possiamo dare espressione concreta e coerente alla nostra fede. L’insegnamento di tutto il Nuovo Testamento ha una sua unità intorno a questo tema, che trova riscontro anche nelle parole dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1,22-25). 7. Davanti ai poveri non si fa retorica, ma ci si rimbocca le maniche e si mette in pratica la fede attraverso il coinvolgimento diretto, che non può essere delegato a nessuno. A volte, invece, può subentrare una forma di rilassatezza, che porta ad assumere comportamenti non coerenti, quale è l’indifferenza nei confronti dei poveri. Succede inoltre che alcuni cristiani, per un eccessivo attaccamento al denaro, restino impantanati nel cattivo uso dei beni e del patrimonio. Sono situazioni che manifestano una fede debole e una speranza fiacca e miope. Sappiamo che il problema non è il denaro in sé, perché esso fa parte della vita quotidiana delle persone e dei rapporti sociali. Ciò su cui dobbiamo riflettere è, piuttosto, il valore che il denaro possiede per noi: non può diventare un assoluto, come se fosse lo scopo principale. Un simile attaccamento impedisce di guardare con realismo alla vita di tutti i giorni e offusca lo sguardo, impedendo di vedere le esigenze degli altri. Nulla di più nocivo potrebbe accadere a un cristiano e a una comunità dell’essere abbagliati dall’idolo della ricchezza, che finisce per incatenare a una visione della vita effimera e fallimentare. Non si tratta, quindi, di avere verso i poveri un comportamento assistenzialistico, come spesso accade; è necessario invece impegnarsi perché nessuno manchi del necessario. Non è l’attivismo che salva, ma l’attenzione sincera e generosa che permette di avvicinarsi a un povero come a un fratello che tende la mano perché io mi riscuota dal torpore in cui sono caduto. Pertanto, «nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. Nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 201). È urgente trovare nuove strade che possano andare oltre l’impostazione di quelle politiche sociali «concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che unisca i popoli» (Enc. Fratelli tutti, 169). Bisogna tendere invece ad assumere l’atteggiamento dell’Apostolo che poteva scrivere ai Corinzi: «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza» (2 Cor 8,13).          8. C’è un paradosso che oggi come nel passato è difficile da accettare, perché si scontra con la logica umana: c’è una povertà che rende ricchi. Richiamando la “grazia” di Gesù Cristo, Paolo vuole confermare quello che Lui stesso ha predicato, cioè che la vera ricchezza non consiste nell’accumulare «tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano» (Mt 6,19), ma piuttosto nell’amore vicendevole che ci fa portare i pesi gli uni degli altri così che nessuno sia abbandonato o escluso. L’esperienza di debolezza e del limite che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, e ora la tragedia di una guerra con ripercussioni globali, devono insegnare qualcosa di decisivo: non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice. Il messaggio di Gesù ci mostra la via e ci fa scoprire che c’è una povertà che umilia e uccide, e c’è un’altra povertà, la sua, che libera e rende sereni. La povertà che uccide è la miseria, figlia dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza e della distribuzione ingiusta delle risorse. È la povertà disperata, priva di futuro, perché imposta dalla cultura dello scarto che non concede prospettive né vie d’uscita. È la miseria che, mentre costringe nella condizione di indigenza estrema, intacca anche la dimensione spirituale, che, anche se spesso è trascurata, non per questo non esiste o non conta. Quando l’unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi. Non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento. La povertà che libera, al contrario, è quella che si pone dinanzi a noi come una scelta responsabile per alleggerirsi della zavorra e puntare sull’essenziale. In effetti, si può facilmente riscontrare quel senso di insoddisfazione che molti sperimentano, perché sentono che manca loro qualcosa di importante e ne vanno alla ricerca come erranti senza meta. Desiderosi di trovare ciò che possa appagarli, hanno bisogno di essere indirizzati verso i piccoli, i deboli, i poveri per comprendere finalmente quello di cui avevano veramente necessità. Incontrare i poveri permette di mettere fine a tante ansie e paure inconsistenti, per approdare a ciò che veramente conta nella vita e che nessuno può rubarci: l’amore vero e gratuito. I poveri, in realtà, prima di essere oggetto della nostra elemosina, sono soggetti che aiutano a liberarci dai lacci dell’inquietudine e della superficialità. Un padre e dottore della Chiesa, San Giovanni Crisostomo, nei cui scritti si incontrano forti denunce contro il comportamento dei cristiani verso i più poveri, scriveva: «Se non puoi credere che la povertà ti faccia diventare ricco, pensa al Signore tuo e smetti di dubitare di questo. Se egli non fosse stato povero, tu non saresti ricco; questo è straordinario, che dalla povertà derivò abbondante ricchezza. Paolo intende qui con “ricchezze” la conoscenza della pietà, la purificazione dai peccati, la giustizia, la santificazione e altre mille cose buone che ci sono state date ora e sempre. Tutto ciò lo abbiamo grazie alla povertà» (Omelie sulla II Lettera ai Corinzi, 17,1). 9. Il testo dell’Apostolo a cui si riferisce questa VI Giornata Mondiale dei Poveri presenta il grande paradosso della vita di fede: la povertà di Cristo ci rende ricchi. Se Paolo ha potuto dare questo insegnamento – e la Chiesa diffonderlo e testimoniarlo nei secoli – è perché Dio, nel suo Figlio Gesù, ha scelto e percorso questa strada. Se Lui si è fatto povero per noi, allora la nostra stessa vita viene illuminata e trasformata, e acquista un valore che il mondo non conosce e non può dare. La ricchezza di Gesù è il suo amore, che non si chiude a nessuno e a tutti va incontro, soprattutto a quanti sono emarginati e privi del necessario. Per amore ha spogliato sé stesso e ha assunto la condizione umana. Per amore si è fatto servo obbediente, fino a morire e a morire in croce (cfr Fil 2,6-8). Per amore si è fatto «pane di vita» (Gv 6,35), perché nessuno manchi del necessario e possa trovare il cibo che nutre per la vita eterna. Anche ai nostri giorni sembra difficile, come lo fu allora per i discepoli del Signore, accettare questo insegnamento (cfr Gv 6,60); ma la parola di Gesù è netta. Se vogliamo che la vita vinca sulla morte e la dignità sia riscattata dall’ingiustizia, la strada è la sua: è seguire la povertà di Gesù Cristo, condividendo la vita per amore, spezzando il pane della propria esistenza con i fratelli e le sorelle, a partire dagli ultimi, da quanti mancano del necessario, perché sia fatta uguaglianza, i poveri siano liberati dalla miseria e i ricchi dalla vanità, entrambe senza speranza. 10. Il 15 maggio scorso ho canonizzato Fratel Charles de Foucauld, un uomo che, nato ricco, rinunciò a tutto per seguire Gesù e diventare con Lui povero e fratello di tutti. La sua vita eremitica, prima a Nazaret e poi nel deserto sahariano, fatta di silenzio, preghiera e condivisione, è una testimonianza esemplare di povertà cristiana. Ci farà bene meditare su queste sue parole: «Non disprezziamo i poveri, i piccoli, gli operai; non solo essi sono i nostri fratelli in Dio, ma sono anche quelli che nel modo più perfetto imitano Gesù nella sua vita esteriore. Essi ci rappresentano perfettamente Gesù, l’Operaio di Nazaret. Sono primogeniti tra gli eletti, i primi chiamati alla culla del Salvatore. Furono la compagnia abituale di Gesù, dalla sua nascita alla sua morte . Onoriamoli, onoriamo in essi le immagini di Gesù e dei suoi santi genitori . Prendiamo per noi che egli ha preso per sé . Non cessiamo mai di essere in tutto poveri, fratelli dei poveri, compagni dei poveri, siamo i più poveri dei poveri come Gesù, e come lui amiamo i poveri e circondiamoci di loro» ( Commenti al Vangelo di Luca, Meditazione 263).  Per Fratel Charles queste non furono solo parole, ma stile concreto di vita, che lo portò a condividere con Gesù il dono della vita stessa. Questa VI Giornata Mondiale dei Poveri diventi un’opportunità di grazia, per fare un esame di coscienza personale e comunitario e domandarci se la povertà di Gesù Cristo è la nostra fedele compagna di vita. Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2022, Memoria di Sant’Antonio di Padova.   FRANCESCO...
    • Un cuor solo, un’anima sola
      Un cuor solo, un’anima solaUn cuor solo, un’anima sola Lettera alla Diocesi anno pastorale 2022-23  Scarica la lettera   Carissimi fratelli e sorelle della Chiesa che è in Reggio Emilia-Guastalla, con questa mia prima lettera vorrei rivolgermi a voi per condividere alcune mie riflessioni maturate negli incontri di questi mesi. Non vuole essere una lettera pastorale, quanto piuttosto un’indicazione di alcuni spunti spirituali per il cammino di quest’anno. Sono stati giorni e settimane intense, dove ho potuto constatare di persona la vitalità e la varietà di doni di cui è ricca e ricolma la nostra Chiesa. Una tradizione spirituale ed ecclesiale che nel corso degli anni si è accresciuta e impreziosita di iniziative pastorali in numerosi ambiti della vita, tanto da essere un punto di riferimento, non solo per i credenti ma anche per tutta la popolazione di Reggio Emilia-Guastalla. A fronte di questa indubbia e consolante vivacità, di cui bisogna essere sanamente fieri, non mancano situazioni di fatica e di preoccupazione che – a dire il vero – sono comuni a tante comunità diocesane del nostro paese e, si può dire, della Chiesa universale. L’elenco di tali difficoltà potrebbe essere lungo: sia sufficiente ricordare la diminuzione di presbiteri e religiosi/e, con evidenti ricadute sulle opere educative e caritative e una pervasiva secolarizzazione, con il conseguente drastico calo della partecipazione attiva alla vita delle comunità, accentuata e resa ancor più evidente dalla pandemia. Le strutture parrocchiali – oratori, scuole dell’infanzia, case di riposo e attività ricreative – che un tempo avevano costituito un efficace volano a servizio dell’annuncio e dell’evangelizzazione, sono diventate – spesso – un peso oneroso da gestire o anche solo da conservare. Negli anni passati la Diocesi ha affrontato una seria e ponderata riflessione per ripensa- re e rimodulare la sua presenza sul territorio che ha portato a una riduzione del nume- ro dei Vicariati e la promozione delle Unità Pastorali. È stata una prima significativa risposta al cambiamento di scenario ecclesiale e sociale nel quale siamo immersi ormai da anni. Un tassello altrettanto importante è sta- to il lavoro di trasformazione e di conversione che ha coinvolto gli uffici della Curia per essere più efficacemente a servizio del territorio e delle unità pastorali. Un grazie di cuore a tutti coloro che si sono adoperati per aiutare le nostre comunità a non fermarsi a rimpiangere un passato che – pur avendo dato numerosi e fecondi frutti dei quali ancor oggi godiamo – è inesorabilmente tramontato. Occorre saper accogliere le sfide e le difficoltà che il presente ci impone e propone come un’opportunità per crescere spiritualmente. Radicati e fondati sulla memoria di una Chiesa che nel corso dei secoli ha seminato con abbondanza, deve crescere la consapevolezza che ogni generazione di credenti, sostenuta e guidata dalla Spirito Santo, ha il compito ineludibile di adattare sempre più se stessa alla potenza trasfigurante del Vangelo per consolidare la fede dei credenti e per aiutare chi da tempo si è allontanato, per tanti motivi, – forse anche per nostra responsabilità –, affinché possa riprendere un cammino di fede. Le parole dell’apostolo Paolo sono un pungolo costante e una bussola che orienta decisamente ogni evangelizzatore: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.” (1Cor 9,22-24). Non dobbiamo indulgere alla rassegnazione – tentazione tutt’altro che remota – quasi fossimo chiamati a gestire con dignità un de- clino, ritenendo che i fasti del passato, ormai archiviati, lascino lo spazio ad un presente di un piccolo gregge sempre più elitario e sempre meno missionario. Nemmeno si può assecondare l’idea che quanto si è fatto sia ormai un’esperienza muta e sterile. In realtà, se oggi siamo qui a testimoniare la fede, è grazie a chi ci ha preceduto, che pur con i limiti tipici della nostra fragilità umana, ci ha messo nelle condizioni di incontrare il Signore. Ho detto, in più occasioni, che non possiamo permetterci il lusso dell’avvilimento o dello sconforto, perché sarebbe un atteggia- mento di ingiustizia – oserei dire grave – nei confronti del Signore e di tanti fratelli e sorelle di questa Chiesa che hanno speso la loro vita per rendere visibile e tangibile l’amore di Dio! Proprio in queste settimane si è concluso il poderoso lavoro sulla storia della Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla. L’ultimo volume in tre tomi ci consegna la storia recente, di cui molti di voi – con ogni probabilità – sono stati anche testimoni oculari e forse protagonisti. Sono pagine intrise di operosità e di iniziati- ve, anche innovative, sia in ambito ecclesiale, sociale e caritativo. Conoscere questa storia, amare questi volti di fratelli e sorelle – vescovi, presbiteri, diaconi, religiosi/e, laici e laiche – è un primo efficace antidoto contro lo scoraggiamento, ma anche un monito a non disperdere questa preziosa eredità. Un grazie di cuore al Vescovo Adriano che ha promosso questa iniziativa e a chi l’ha resa possibile con il suo lavoro assiduo e silenzioso!   1.  La Comunione: immersione nell’Amore trinitario. Negli incontri serali nei vicariati ho proposto una riflessione sulla comunione a partire dalle considerazioni che l’apostolo Paolo rivolge alla comunità di Corinto, nella sua prima lettera. Sin dalle battute iniziali, l’apostolo manifesta la sua preoccupazione per le notizie che lo raggiungono dopo la sua partenza: divisioni, invidie e rivalità (cf. 1Cor 1, 11-12). Egli è a conoscenza dei grandi doni spirituali operanti nella comunità, eppure coglie immediatamente che questi doni, se sono sganciati da Colui che li ha concessi, diventano un’arma pericolosa e letale per la vita stessa della comunità. Il dono separato dal volto del Donatore diviene così, in modo subdolo – ma non tanto – un mezzo per affermare se stessi, ammantando il proprio impegno come servizio e dedizione, mentre in realtà si frantuma quella Comunione che è il dono per eccellenza della Pasqua del Signore: come vantarsi di ciò che per pura grazia ci è stato donato? Né chi pianta né chi irriga è qualcosa, ma è Dio che fa crescere (cf. 1Cor 3,5-7). La compromissione dell’unità e della comunione, anche a fronte di una proposta ricca e al passo con i tempi, è votata inesorabilmente alla sterilità e non apporta nessuna novità evangelica: nel migliore dei casi la vita della comunità è assimilata a quella di un club o ad un’agenzia di aggregazione sociale che fornisce servizi a richiesta. Paolo rimane fortemente contrariato nel vedere che tale frattura si rende ancora più visibile nel contesto della celebrazione eucaristica che non è più la cena del Signore! (cf. 1Cor 11,20). La Comunione è il dono che il Signore risorto riversa sui discepoli asserragliati e impauriti nel cenacolo: per due volte, infatti, risuona in quel mattino di Pasqua “la Pace è con voi!” (cf. Gv 20,19.21). La pace che nasce dalla Pasqua, con l’ostensione delle Sue mani e del Suo costato, segni inequivocabili di quell’Amore portato sino alla fine, è la pace di Cristo. Non è quella del mondo, che spesso si raggiunge con l’eliminazione dell’avversario, ma è piuttosto quella che scaturisce dal dono di sé per amore del nemico. La pace che discende nel cuore dell’uomo lo riconcilia profondamente con quell’immagine di Dio che i nostri progenitori avevano lasciato sfregiare dal tentatore nel giardino dell’Eden, quando avevano accolto e coltivato l’idea che Dio era loro antagonista. Da quel momento il Signore si è messo alla ricerca dell’uomo per guarire in lui questa tragica distorsione del Suo volto: sì, è vero, siamo tutti dei ricercati. A conclusione di quello stupendo affresco della vita cristiana che è il capitolo ottavo della lettera ai Romani, l’apostolo Paolo quasi sopraffatto dallo stupore e dalla meraviglia di sentirsi così profondamente amato esclama: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù che è morto, anzi, che è resuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?” (Rm 8,31-34). Nella luce sempre più intensa della mattina di Pasqua, l’uomo ritrova il vero volto di un Dio che è Padre (cf. Gv 1,18), di un Figlio che ha donato se stesso per noi Suoi fratelli (cf. Gv 20,17) e del Paraclito, lo Spirito di Verità che rende efficacemente presente la Sua parola, la Sua vita (cf. Gv 14,26; 16,13-15) e che rimane con noi per sempre (cf. Gv 14,16). La vita cristiana è dunque immersione in questo Amore trinitario di cui siamo stati resi partecipi e al quale siamo perennemente invitati come è iconicamente rappresentato nella celebre opera di Rublev. Nel Battesimo ricevuto – consepolti e con- resuscitati con Cristo (cf. Rm 6,4) – portiamo impressa in modo indelebile questa impronta comunionale trinitaria e, ogni volta che l’assecondiamo e la viviamo, avvertiamo una gioia profonda perché a questo siamo chiamati e per questa siamo stati creati. L’esperienza di un Amore così avvolgente e discreto allo stesso tempo si riversa inevitabilmente dal nostro cuore alle persone che incontriamo e rende possibile quell’unità dei cuori che, pur diversi, riconoscono tutti di es- sere stati amati e salvati dal quel Buon/Bel Pastore che con il dono di sé ci ha condotti nel seno del Padre. Ho voluto richiamare, per sommi capi, questo grande mistero di salvezza, fondamento della nostra identità di credenti, per ricorda- re a me e a ciascuno di voi che la comunione e l’unità non sono una strategia per rendere più efficace e incisiva la nostra azione, secondo l’antica massima “l’unione fa la forza” o l’altrettanto celebre espressione degli intrepidi moschettieri “tutti per uno e uno per tutti”. La comunione non è un mezzo, è il principio e il fine da cui trae origine e cui tende tutta l’attività evangelizzatrice della Chiesa. Non si deve smarrire questa visione teologica e spirituale, senza la quale l’identità stessa della Chiesa e la sua missione perdono il loro senso e significato. 2.  La relazione, via dell’evangelizzazione. È evidente che una simile consapevolezza ha delle inevitabili ricadute per la vita con- creta delle nostre comunità e per il modo con cui mettiamo a servizio i doni che dal Signore abbiamo ricevuto! Conseguenze innanzitutto per chi ha responsabilità di guida nel ministero ordinato – presbiteri e diaconi –, ma non solo, perché deve essere chiaro che nessuno nella Chiesa è solo destinatario di una Parola, o oggetto di una cura pastorale. Tutti con doni diversi sono chiamati a contribuire all’edificazione della Chiesa come pietre viventi (cf. 1Pt 2,5), non esiste una delega all’evangelizzazione, ma una piena corresponsabilità che è orientata al bene dei fratelli e delle sorelle che già ne sono membri e anche nei confronti di coloro – e sono i più – che da tempo le sono estranei. La Comunione si intesse e si alimenta nell’incontro, cioè nella volontà di dare tempo e spazio alla relazione. Senza questa precisa e determinata volontà di offrire ciò che abbiamo di più prezioso – il tempo, il mio tempo – all’altro, non può in nessun modo decollare un vero e fecondo incontrarsi nella Chiesa. Donare tempo e accogliersi incondizionatamente sono le premesse indispensabili perché la comunione possa esprimersi e trovare un luogo di epifania. Il paradosso della nostra epoca è che mai come ora abbiamo l’opportunità di entrare in contatto gli uni con gli altri attraverso numerosi mezzi social a nostra disposizione, che ci permetto- no una comunicazione istantanea e in tempo reale, ma è altrettanto vero che mai come oggi viviamo all’interno di un mondo comunicativo virtuale dove le relazioni possono accendersi o spegnersi a nostro piacimento, senza alcun coinvolgimento. Abbiamo bisogno di incontrare un volto e non di ricevere un semplice messaggio di chat con qualche emoticons divertente! 2.1  Concordia e fraternità del nostro presbiterio. La ristrutturazione delle Diocesi resasi necessaria per i motivi che tutti conosciamo, ha portato ad una significativa estensione dei Vicariati, inoltre le Unità Pastorali con gli accorpamenti di parrocchie che un tempo avevano un presbitero residente hanno inevitabilmente reso più difficile il contatto personale o anche solo la conoscenza delle persone che, in un contesto più circoscritto, avevano la possibilità di coltivare relazioni più familiari. Credo sia necessario investire di più nel creare occasioni di incontro innanzitutto tra i presbiteri disseminati su un territo- rio vasto e a volte così disomogeneo che si estende dalla pianura fino alla montagna. Il fine primo di questi incontri tra presbiteri non deve essere quello della programmazione che pur è necessaria, ma di coltivare la fraternità presbiterale. Abbiamo bisogno di condividere la nostra vita e missione, di trovarci a pregare insieme, meditando e pregando la Parola di Dio che, prima di essere annunciata alle nostre comunità, deve trovarci discepoli pronti ad ascoltare! Non diventiamo dei professionisti della conversione altrui! In questa luce mi sembra quanto mai urgente e necessario per il nostro presbiterio che una volta al mese nei vicariati ci si in- contri con questo desiderio di condivisione fraterna, semplice, concreta e reale! So bene, per esperienza, che noi presbiteri spesso ci lamentiamo della nostra solitudine e dell’isolamento, ma quando poi ci sono offerte reali occasioni di incontro andiamo in difficoltà. Forse sopraffatti dalle tante cose da fare, li consideriamo una perdita di tempo, o li viviamo quasi come una penitenza necessaria. Siamo stati abituati a pensare e ad agire da soli, illudendoci di essere più tempestivi ed efficienti. A volte sembra che non manchino mai provvidenziali giustifica- zioni pastorali – ad esempio funerali – che ci impediscono di partecipare a questi incontri programmati! Sarà quanto mai opportuno pregare per la salute dei nostri fedeli, specie in prossimità di questi incontri! Un presbitero che si sottrae a questi incontri o li vive con pesantezza e rassegnazione, deve interrogarsi seriamente sulla qualità della sua vita di fede e sulla sua appartenenza a quella Chiesa che lo ha generato alla fede e che gli ha conferito una missione così grande e impegnativa. Utilizziamo le occasioni che ci sono offerte e siamo anche creativi nel proporne di nuove. Investire sulla comunione è sempre fecondo! Sono rimasto favorevolmente colpito dall’aver saputo che ci sono presbiteri che si trovano nei Vicariati una sera alla settimana per condividere la cena e un momento di fraternità, senza aver lo scopo di riformare la Chiesa universale e quella reggiana, magari si scambiamo pareri sul nuovo Vescovo – spero clementi –, ma animati del desiderio di stare insieme consumando i pasti con letizia e semplicità di cuore! (cf. At 2,46). 2.2  Presbiteri e diaconi. Un altro aspetto che mi sembra rilevante per il cammino della nostra comunità diocesana è la presenza significativa, sia in termini quantitativi che qualitativi dei diaconi. La storia recente della nostra Chiesa anche da questo punto di vista mi sembra particolarmente benedetta! Un desiderio e una richiesta che sono emersi negli incontri vicariali è che tra presbiteri e diaconi possa esserci, non solo una collaborazione sempre più stretta, ma prima di tutto una reale conoscenza e condivisione del cammino pastorale delle comunità! Non si tratta evidentemente di una semplice suddivisione delle competenze o degli ambiti che certamente è utile per il buon funzionamento delle attività, ma di corresponsabilità nell’esercizio del proprio ministero. In questa prospettiva appare naturale e ovvio che essendo responsabili della pastorale di una zona, debbano esserci incontri programmati anche tra presbiteri e diaconi, forse non con cadenza mensile, ma in ogni caso frequenti. Si potrebbe ipotizzare che ad un incontro mensile tra presbiteri ne segua uno tra presbiteri e diaconi. L’incontro dovrebbe avere sempre un taglio fraterno e spirituale, per conoscersi sempre meglio alla luce della Parola di Dio. Lascio ai singoli vicariati l’organizzazione di questi incontri, tenendo conto della situazione e della particolarità del nostro territorio. Inoltre visto che le Unità Pastorali hanno al loro interno comunità che un tempo avevano un parroco residente, perché non pensare che un diacono abbia la delega di accompagnare in comunione con il moderatore dell’Unità una comunità in modo fisso? Ciò aiuterebbe i fedeli ad avere un punto di riferimento più stabile e attento alle esigenze di quella 2.3  Accompagnare i cambiamenti. La pandemia ci ha costretto a sperimentare nuove modalità di presenza e di azione pastorale. Pur nella drammaticità della situa- zione, dalla quale non siamo ancora completamente usciti, abbiamo reagito con fiducia e speranza, scoprendo la creatività dello Spirito Santo. Occorre far tesoro di questa esperienza. Ora che la situazione è sensibilmente migliorata, si riprende il cammino. Ho percepito il desiderio di cambiamento che l’esperienza pandemica ha in parte accelerato. È senz’altro un segno di vitalità che deve essere ben incanalato. In altre parole, quando si propongono dei cambia- menti nei percorsi di iniziazione alla fede e ai Sacramenti, è necessaria l’accortezza e la pazienza di accompagnarli. Sappiamo bene, per esperienza, quanto sia difficile mutare le nostre abitudini, spesso consolidate e collaudate, e inoltre quanto sia una facile tentazione assecondare un desiderio di cambiamento che non tenga conto della totalità della comunità. È un problema antico, se già San Paolo scrivendo ai Corinti e ai Romani aveva evidenziato le difficoltà che attraversano queste comunità composte da forti e deboli. Rimando a questi testi (cf. 1Cor 8; Rm 14) che costituiscono una sapiente e permanente riflessione per ogni evangelizzatore! Accompagnare e non imporre, tenendo conto dei più deboli e fragili, rallentando se necessario il ritmo per non lasciare nessuno lungo la strada. Un buon passo da montagna, uno sguardo attento e premuroso per incoraggiare e sostenere, una valutazione del passato che non indulge a nostalgie ma neppure a sentenze perentorie e categoriche su di esso, quasi che il Vangelo sia giunto in quella zona in coincidenza con il nostro insediamento! Un’ultima considerazione su questo aspetto dell’accompagnamento! Ognuno di noi ha maturato un cammino di fede grazie ad incontri con persone e assimilando una spiritualità che in qualche modo ha parlato al suo cuore ed è stato un luogo provvidenziale per il suo cammino di fede. È necessario vigilare attentamente perché, – specie per chi ha responsabilità di guida – non si cada nell’inganno che una tale esperienza sia considerata la migliore e la più efficace, tanto da essere proposta come la Via su cui tutti si devono incamminare. Accompagnare significa saper guardare all’altro con sapienza e libertà, e fornendo un’alimentazione adeguata e proporzionata a quanto può essere assimilato e metabolizzato! Un autentico evangelizzatore non lega mai a sé quelle persone che sono e sempre rimangono del Buon Pastore e, per quanto sia grato del suo percorso di fede e della spiritualità che lo sostiene e lo alimenta, si guarda bene dal cedere alla tentazione di convogliare tutti nella medesima direzione, sapendo bene che lo Spirito Santo soffia dove vuole ed è creativo anche nei modi in cui riesce ad aprirsi un varco nel cuore dell’uomo. È confortante vedere che quando ci sono avvicendamenti nelle parrocchie e unità pastorali spesso ci siano sofferenze per il distacco e per le profondità delle relazioni maturate! È un segno che si è lavorato bene, ma è ancor più consolante vedere che si è pronti a riprendere un cammino con altri fratelli e sorelle, senza rimpianti, e lasciando ad altri il campo completamente libero! Difendiamo questa libertà, che è quella dei figli di Dio. In questa luce propongo che per l’anno pastorale nei nostri incontri si possa approfondire nella meditazione e nella preghiera la prima lettera ai Corinzi di San Paolo. In questo scritto possiamo attingere non solo la passione dell’apostolo per l’annuncio del Vangelo, ma anche acquisire, dalla sua esperienza, quella carità pastorale di cui le nostre comunità hanno bisogno.  2.4  Il Cammino sinodale. In questo orizzonte trae nuovo impulso il cammino sinodale che le Chiese in Italia han- no intrapreso e che ha visto la nostra Diocesi impegnata in diversi ambiti a promuovere l’ascolto delle diverse componenti della Chiesa e della società civile. In questo secondo anno siamo invitati ad un supplemento di ascolto! Siamo esortati ad avere come punto di riferimento la casa di Betania e ad aprire i “Cantieri di Betania”. Questi nuovi cantieri investono luoghi e ambienti che siamo chiamati a conoscere meglio e che includono il vasto mondo delle povertà, gli ambienti della cultura, delle religioni e delle fedi, il mondo intra ecclesiale dei consigli pastorali e degli affari economici, il ruolo delle strutture delle nostre parrocchie e infine l’ambito delle diaconie e formazione spirituale, con un’attenzione particolare al tema della corresponsabilità femminile all’interno della comunità cristiana. Avremo modo di organizzare tempi e modalità di questo ascolto. 3.  Insegnaci a pregare!  Un altro spunto che vorrei offrirvi è quello riguardante la preghiera. Se la comunione è il dono per eccellenza del Signore risorto, la preghiera è una delle vie essenziali perché possiamo crescere nella nostra relazione con Lui e tra di noi. È significativo che i discepoli, vedendo Gesù pregare, abbiano avanzato la richiesta! La loro domanda, infatti, scaturisce dal fatto che l’hanno visto pregare e da qui è nato in loro il desiderio di essere aiutati ad entrare in questa dimensione orante (cf. Lc 11,1ss). Ciò significa che prima dell’esortazione a pregare, che in altri contesti Gesù raccomanda ai discepoli (Lc 18,1ss; 22,40), è la testimonianza della sua preghiera a suscitare in loro questa esigenza. Insisto su questo perché la preghiera si può insegnare solo se si è uomini e donne di preghiera, infatti è comunicazione di un’esperienza, è la capacità di lasciare che lo Spirito Santo venga in aiuto alla nostra debolezza! (cf. Rm 8,26). Non si tratta di esporre una tecnica, quanto piuttosto di trasmettere quanto si vive nell’incontro quotidiano, feriale con Dio. Siamo tutti d’accordo che la preghiera è una dimensione importante e forse proprio per questo non riusciamo a viverla in pienezza. La preghiera non è semplicemente importante, ma essenziale, così come respirare non è semplicemente importante ma vitale! Finché confiniamo la preghiera tra le cose importanti, saremo sempre in difficoltà a darle il giusto spazio nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità cristiane! Spesso ci difendiamo, dicendo che il tempo a nostra disposizione è poco, che siamo ingolfati in tante questioni, ma in realtà più che di tempo la preghiera ha bisogno di coraggio! Il coraggio di stare alla presenza del Dio vivente che scruta i nostri cuori e dinanzi al quale nulla di noi è nascosto (cf. Eb 4,12-13). Abbiamo timore di creare e dare spazio ad una Presenza che mette a nudo ciò che siamo senza alcuna possibilità di barare. Eppure sappiamo bene che tutte le volte che ci siamo disposti a incontrare il Signore e gli abbiamo dato tempo e spazio, abbiamo avvertito gioia e consolazione! È vero che siamo chiamati ad avere un atteggiamento di apertura nei confronti dei cambiamenti che si rendono necessari per essere più efficaci nel trasmettere la fede, modificando anche quelle strutture che hanno fatto il loro tempo e che ora possono essere più di intralcio che di aiuto. Ma non dobbiamo pensare che cambiando le strutture, le persone – di conseguenza – modifichino la loro vita. In realtà è il cambiamento di noi stessi la via per un’autentica riforma della Chiesa e della vita delle nostre comunità! Il rischio, infatti, è che ciò che proponiamo sia ancora il frutto di quell’uomo vecchio i cui residui continuano a influenzare il nostro modo di pensare ed agire! Il Magistero dei Santi, da cui sempre dovremmo attingere, è la testimonianza inequivocabile di questa dinamica. San Francesco e San Domenico – solo per fare un esempio – hanno influenzato più di ogni altra autorità ecclesiastica del loro tempo, la vita della Chiesa e della società. Una nuova e rinnovata evangelizzazione non può che scaturire da cuori oranti e che accolgono l’invito a stare in ascolto di quanto lo Spirito suggerisce e ispira alla Chiesa! E il frutto dello Spirito – come scrive san Paolo – è: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé! (cf. Gal 5,22). Si direbbe che lo Spirito Santo ci rende finalmente persone normali! La celebre frase di San Serafino di Sarov possa costituire una stella polare per la nostra pastorale: “Trova la pace interiore e una moltitudine di fratelli troverà la salvezza in te”. Carissimi fratelli e sorelle promuoviamo nelle nostre Unità Pastorali occasioni per imparare a pregare, attraverso momenti di lettura orante della Sacra Scrittura, ritiri ed esercizi spirituali secondo diverse modalità! Ma soprattutto siamo uomini e donne di preghiera! I presbiteri e i diaconi sentano che la dia- conia più importante è aiutare i fratelli e le sorelle che incrociano il loro cammino ad incontrare il Signore. Non accada che a fronte di una richiesta di aiuto per imparare a pregare ci trovino impreparati o sprovveduti! La lingua parla dalla sovrabbondanza del cuore! (cf. Lc 6,45). 4.  La Carità. La varietà e la consistenza degli interventi della nostra Caritas diocesana sono una efficace testimonianza di attenzione e premura per le tante urgenze che, anche nel tempo presente, siamo chiamati ad affrontare. Lo spettro di intervento è davvero molto ampio così come l’organizzazione richiede tempo, energie e tanta generosità da parte di tutti. Sono grato al Signore di questa operosità e di un servizio che spesso non conosce orario! Nondimeno, mi sembra importante che un’attività così intensa aiuti a riscoprire che la Carità non è appannaggio esclusivo di co- loro che sono direttamente impegnati nelle attività organizzative! Se non esiste una de- lega all’evangelizzazione, così non può esistere che ci siano dei professionisti della Carità a cui si lascia il compito di provvedere a tanti fratelli e sorelle che sono nel bisogno e nella necessità. Non potremo dire al Signore nel giorno del giudizio che incontrando il povero, l’affamato, l’assetato ecc…l’abbiamo inviato alla Caritas! Il professionista della Carità è il credente in quanto tale! Se a volte parlando della povertà si rischia di cadere nell’ideologia, quando si scelgono i poveri si sceglie sempre Cristo! Questa riflessione è un monito severo per me come Vescovo e vorrebbe essere un’esortazione a tutti i fedeli perché anche nella ferialità – spesso monotona – non ci lasciamo sfuggire le tante occasioni di bene che il Signore ci offre! Non deleghiamo quella Carità che è l’unica realtà che è più forte della morte (cf. Ct 8,6-7) e che inoltre copre una moltitudine di peccati! (cf. 1Pt 4,8). 5.  La Missione. La Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, in particolare dopo il Concilio e con l’impulso del Vescovo Gilberto, ha risposto con generosità al desiderio di rinnovare e sostenere l’impegno della missione ad Gentes. Quanti presbiteri, diaconi, religiosi/e, laici/laiche, sono partiti, in questi anni, dalla nostra terra e hanno speso e stanno spendendo la loro vita per annunciare il Vangelo! Se è vero che in questi ultimi tempi le forze si sono sensibilmente ridotte, ancor oggi la nostra Chiesa è impegnata su questo fronte ed è un gran bene per tutti noi! Questi fratelli e sorelle ci ricordano che la Chiesa è, per sua intima natura, missionaria e che nessuno si può sottrarre al dovere di essere un testimone del Signore risorto! Abbiamo bisogno di riscoprire – nella nostra diocesi di Reggio Emilia-Guastalla – questa dimensione missionaria, chiedere allo Spirito Santo un supplemento di creatività per individuare percorsi e iniziative per re- suscitare nel cuore di tanti fratelli e sorelle il desiderio e la nostalgia di Dio. E forse sarà opportuno incominciare a pensare a qualche idea e progetto per una rinnovata missione evangelizzatrice del nostro territorio. È mia intenzione di visitare questi nostri fratelli e sorelle nelle diverse missioni in cui siamo presenti, non solo per dire loro la prossimità e la gratitudine della nostra comunità diocesana e del Vescovo, ma anche per attingere consolazione e coraggio dalla loro testimonianza! * * * Carissimi fratelli e sorelle, come vedete le considerazioni che vi offro sono solo alcuni pensieri meditati e pregati, che in questi mesi mi hanno accompagnato, durante i numerosi incontri comunitari e personali. Mi auguro possano essere utili per l’inizio del nostro cammino insieme, mentre desidero ringraziarVi di cuore per l’accoglienza e l’amicizia che mi avete manifestato e che mi assicurate, esse sono un dono prezioso per me e per il mio ministero! Come ho chiesto il giorno del mio ingresso pregate per me perché possa essere padre attento e premuroso! La Beata Vergine della Ghiara e della Porta, insieme ai Santi Patroni Prospero e Francesco d’Assisi, i martiri Crisante e Daria e il beato Rolando Rivi, ci custodiscano e proteggano, affinché possiamo essere sempre più un cuor solo e un’anima sola! Reggio Emilia 8 Settembre 2022 Solennità della Natività della B.V. Maria L’Arcivescovo Giacomo Morandi – Vescovo di Reggio Emilia – Guastalla...
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    • Testimonianze  in occasione della  Giornata del Malato
      Testimonianze in occasione della Giornata del MalatoDal Vangelo secondo Marco (Mc 1,40-45) “Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.” In occasione della Giornata del Malato, domenica 14 febbraio scorso, alcuni operatori sanitari della nostra Pieve hanno condiviso una riflessione partendo dal Vangelo per arrivare alla testimonianza della quotidianità nello svolgimento della loro professione. Ecco la raccolta di questi preziosi e ricchi contributi!   Elena Pighini “Io non lavoro a stretto contatto con i malati, da diversi anni mi occupo di formazione, e nello specifico della formazione degli infermieri. In questo ambito ho la fortuna di vivere, attraverso gli studenti che seguo nei percorsi di tirocinio, diverse esperienze di vita e di malattia. Ciò che è accaduto nel 2020, con l’arrivo della Pandemia di Covid, ha coinvolto tutti i professionisti della salute e anche chi come me da anni non andava in clinica. All’inizio è stato un trauma, ma anche una importante esperienza che ha contribuito a riaccendere la passione rispetto alla scelta professionale che ho fatto tanti anni fa. Di questo vangelo mi ha colpito la sequenza di azioni con cui Gesù compie il miracolo: Mosso a compassione; Stesa la mano; Lo toccò; Gli disse Mosso a compassione che non è COMMOZIONE: l’atto e l’effetto del commuovere, del commuoversi; Nel linguaggio medico s’intende una grave perturbazione delle funzioni di uno o più organi, dovuta a causa esterna spesso di origine traumatica. Emozione. Agitazione interiore. Invece è più COMPASSIONE: sentimento di pietà e di dolore per i mali altrui. COMPATIRE: soffrire insieme. I sanitari, come siamo identificati oggi, no sono supereroi, come Gesù davanti alla malattia sono mossi a compassione. Non credete che la sofferenza non lasci impassibili chi giorno dopo giorno assiste persone malate. L’empatia, che come formatori insegniamo ai nostri studenti quando iniziano a muovere i primi passi nel percorso che li condurrà ad essere dei professionisti, è uno degli elementi fondamentali della relazione di cura, l’empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto. Stese la mano, immagine bellissima, se chiudiamo gli occhi possiamo immaginare come Gesù in una posizione completamente asimmetrica rispetto a quella del lebbroso (Gesù in piedi e il lebbroso in ginocchio) tende il corpo, il braccio e la mano verso quest’uomo. Elimina lo spazio che lo separa dall’uomo sia fisicamente che socialmente. Nello stesso tempo, in unica azione prende le distanze dalla legge di Mosé (citate nella prima lettura) ed elimina le distanze tra lui e il malato. Gesù non lo tiene lontano, ai margini, si avvicina, tende. Allora mi vengono alla mente diverse situazioni cliniche vissute in prima persona nel periodo di marzo dell’anno scorso dove insieme ad alcuni colleghi ci siamo trovati a dover gestire l’arrivo delle ambulanze in pronto soccorso. Le persone per ordine clinico venivano inviate in ospedale, dopo aver passato anche diversi giorni in isolamento in casa, per paura di contagiare i famigliari. A noi era affidato il compito di accoglierle, seppur con tutti i dispositivi di protezione personale, e introdurli in pronto soccorso. A noi era chiesto di farci vicini, per poco tempo, è vero, ma il tempo sufficiente ad accoglierli. Lo toccò, Gesù compie un gesto estremo per quel tempo. Tocca un lebbroso. poteva guarirlo con la voce, a distanza, come ha fatto con altri malati invece lo tocca! Il tatto è uno dei cinque sensi e l’unico bidirezionale, io non posso toccare senza essere toccato. Allora mi torna alla mente il discorso del santo Padre Francesco che ho potuto ascoltare di persona in sala Nervi in occasione dell’udienza rivolta agli Infermieri nel 2018…Incontrando il lebbroso che gli chiede di essere sanato, stende la mano e lo tocca (cfr Mt 8,2-3). Non ci deve sfuggire l’importanza di questo semplice gesto: la legge mosaica proibiva di toccare i lebbrosi e vietava loro di avvicinarsi ai luoghi abitati. Gesù però va al cuore della legge, che trova il suo compendio nell’amore del prossimo, e toccando il lebbroso riduce la distanza da lui, perché non sia più separato dalla comunità degli uomini e percepisca, attraverso un semplice gesto, la vicinanza di Dio stesso. Così, la guarigione che Gesù gli dona non è solo fisica, ma raggiunge il cuore, perché il lebbroso non solo è stato guarito ma si è sentito anche amato. Non dimenticatevi della “medicina delle carezze”: è tanto importante! Una carezza, un sorriso, è pieno di significato per il malato. È semplice il gesto, ma lo porta su, si sente accompagnato, sente vicina la guarigione, si sente persona, non un numero. Non dimenticatelo. Stando con i malati ed esercitando la vostra professione, voi stessi toccate i malati e, più di ogni altro, vi prendete cura del loro corpo. Quando lo fate, ricordate come Gesù toccò il lebbroso: in maniera non distratta, indifferente o infastidita, ma attenta e amorevole, che lo fece sentire rispettato e accudito. Facendo così, il contatto che si stabilisce con i pazienti porta loro come un riverbero della vicinanza di Dio Padre, della sua tenerezza per ognuno dei suoi figli. Proprio la tenerezza: la tenerezza è la “chiave” per capire l’ammalato. Con la durezza non si capisce l’ammalato. La tenerezza è la chiave per capirlo, ed è anche una medicina preziosa per la sua guarigione. E la tenerezza passa dal cuore alle mani, passa attraverso un “toccare” le ferite pieno di rispetto e di amore. DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DELLA FEDERAZIONE DEI COLLEGI INFERMIERI PROFESSIONALI, ASSISTENTI SANITARI, VIGILATRICI D’INFANZIA (IPASVI) Sabato, 3 marzo 2018Gli disse, Gesù parla al lebbroso per guarirlo e fa il miracolo. Lo guarisce da una esistenza triste e isolata e lo riporta alla vita, alla gioia. Prova anche a dirgli di non fare troppa pubblicità, ma il guarito non riesce a trattenere l’entusiasmo, giustamente pensiamo noi. Non è forse una esperienza entusiasmante? Guarire da una malattia è una gioia infinita!!! Purtroppo però non sempre accade la stessa cosa nei nostri luoghi di cura. A volte la cura non è sufficiente e non si guarisce, a volte le parole che escono dalla nostra bocca sono vorrei guarirti ma non posso, però posso cercare di farti star meglio. Siamo chiamati in questa direzione a prenderci cura (to care), utilizzando quei talenti che Dio ci ha donato per far si che quell’esperienza di malattia, che è soprattutto un’esperienza di vita, possa essere per la persona e la sua famiglia un qualcosa di significativo ed importante anche alla luce del Mistero di Dio. Concludendo, Gesù, il figlio di Dio incarnato, entra nella nostra carne. La malattia è l’esperienza di vita più vicina all’incarnazione perché dice del nostro essere sia umani che frammento di Dio. Forse Dio oggi non fa miracoli, ma sprona l’uomo a mettere a servizio della collettività i propri talenti di cui è portatore per essere il suo braccio miracoloso.”   Enrica Incerti “Don Andrea mi ha chiesto nella settimana in cui celebriamo la giornata della vita e degli ammalati di condividere una breve riflessione nata dall’ascolta della Parola di oggi letta alla luce della mia professione di medico. Nel racconto del Vangelo c’è un uomo ammalato di lebbra che va incontro a Gesù e supplicandolo gli dice “ Se vuoi puoi guarirmi”. E in quell’uomo io ritrovo me stessa con le piaghe della mia debolezza e dei miei limiti e ritrovo gli ammalati che incontro nel mio lavoro quotidiano : deboli, affaticati dalla malattia e dalla sofferenza . E insieme con coraggio e voglia di vita chiediamo a Gesù GUARISCICI. Gli ammalati sono esigenti e chiedono a noi che per professione abbiamo scelto di prenderci cura di loro se per noi sono importanti , se la loro vita per noi è preziosa come per Gesù lo è quella del lebbroso che gli si avvicina. Ci chiedono la stessa compassione , ci chiedono di lasciarci ferire dalla loro sofferenza , di comprometterci e di non abbandonarli alla solitudine del loro dolore. Ci chiedono quel TOCCARE che è la misericordia di Gesù che è capace di creare una relazione che non abbandona l’altro nella sua malattia. Gesù oggi ci mostra come si può incontrare la sofferenza sapendo che questo incontro ha il prezzo di una perdita : perdita di se stessi per sapersi misurare con la diversità che abita l’ ammalato, nella consapevolezza del proprio limite e della propria finitezza… La compassione di Gesù non chiede di essere proclamata ; la guarigione, il bene che opera lo allontanano dalla città ma contemporaneamente il bene compiuto da Gesù nel suo gesto , il suo sapere soffrire con l’altro sono in grado di generare una guarigione , una nuova vita che vengono a gran voce annunciate e che a loro volta richiamano intorno a Gesù tanta gente alla ricerca di quel tocco e di quella compassione…. Questo tempo, questi mesi trascorsi nella pandemia ci hanno rivelato quanto è importante anche se impegnativo vivere sulla via di Gesù che ha compassione , tende la mano e tocca. Questa malattia nuova con la quale tutti ci stiamo confrontando mette in luce le nostre paure , le nostre fragilità, le nostre piaghe che corrono il rischio di allontanarci dagli altri. Questi tempi ci interrogano : siamo capaci di andare verso Gesù e come questo uomo chiedergli in ginocchio : GUARISCIMI SIGNORE DALLA LEBBRA DELLA PAURA E DALLA PAURA DELLA LEBBRA!? Oggi come sempre gli ammalati continuano a chiederci se siamo capaci di quel toccare e di quella compassione . La pandemia ci ha mostrato come sia importante il prendersi cura ,il curare anche quando il guarire non è in nostro potere. L’esperienza di questi mesi mi ha fatto toccare con mano la fatica di abitare un tempo diverso e la necessità di tornare sempre a quella sorgente : Gesù che si commuove e tocca. Ho sperimentato con tante persone e non solo con gli operatori sanitari ( penso spesso ad esempio alle commesse dei supermercati nei mesi di marzo e aprile , ai camionisti che viaggiavano senza sosta e senza aree di sosta per portare a tutti il necessario , a tutti coloro che sono rimasti al loro posto fedeli al proprio dovere…) insieme a tutte queste persone ho condiviso quanto sia difficile tenere nelle proprie mani fragili la vita degli altri e allo stesso tempo quanto la compassione sia un amore che genera amore . Nella mia piccola e imperfetta parte, nel lavoro che svolgo ogni giorno sperimento a mia volta quotidianamente di essere oggetto di cura e guarigione .Sono curata e guarita dagli ammalati che incontro e che mi liberano dalle mie piaghe fatte di impazienza di fretta e a volte di paura e di fastidio, dalle loro famiglie e da tutti coloro che ruotano loro intorno e che mi insegnano la dedizione e la pazienza quotidiane , dalla mia famiglia che sana la mia stanchezza e ricopre con amore le ferite del tempo rubato, dai miei amici che mi sostengono con affetto e con la preghiera e soprattutto come l’uomo lebbroso di questa pagina di Vangelo sono curata dal Signore che sempre si prende cura di noi e che è il solo che davvero ci può guarire.”   Claudia Bagni “Io sono un educatore e un operatore assistenziale e non sono né un infermiere né un medico. Se vogliamo paragonare qualcuno a Dio, direi che loro sono sicuramente le persone più adatte. Lavoro in un centro per disabili e in questi 13 anni di lavoro ho visto tante persone. Da noi ci sono ragazzi che sono nati con una disabilità e altri invece che erano persone dette normali, proprio come tutti noi, ma che nella loro vita lo sono diventate. Una malattia congenita o rara, un incidente, un infarto .. le motivazioni sono tante. Sono queste le situazioni più difficili da affrontare ma sono anche quelle in cui si riesce a vedere l’intervento di Dio con più facilità. Alcune persone vengono da noi per un periodo e grazie alle cure e alle terapie riescono a tornare a fare una vita il più normale possibile. Grazie all’intervento appunto dei medici e degli infermieri, che riescono davvero a indicare la via giusta per guarire. Per noi non è facile e né immediato guarire, come lo è per Dio. A lui basta dire lo voglio. I nostri dottori devono studiare per trovare una cura ma mi sembra un ottimo compromesso per metterci sulla strada di Dio. Quando Don Andrea mi ha chiesto di fare questo intervento io mi sono sentita persa. Io di questi miracoli non ne faccio, non curo nessuno. Anzi. Tante volte i ragazzi ( i nostri disabili, malati, ospiti noi li chiamiamo ragazzi) sono la mia cura. Tutti noi abbiamo dei momenti in cui facciamo fatica ad affrontare la nostra vita.. le relazioni difficili, il voler apparire sempre giusti… tutte queste cose si ridimensionano quando penso ai miei ragazzi. Loro sono più in difficoltà di me ma riescono a essere forza per me, io penso che siano loro la mano di Dio. Loro che nonostante tutti i loro problemi sono sempre pronti a sorriderti, a ringraziarti, a starti vicino. Ed è così che nel vederli non come malati o come ospiti, ma vederli come Marco, Lorena, Francesca, tu capisci che loro hanno bisogno di assistenza perché non riescono a lavarsi da soli, ma in cambio ti danno una sorta di magia che ti cura l’anima, che ti cura da tutte quelle cose che pensi che siano così importanti da non potere vivere senza. Ma non è vero. Quello che conta è proprio la loro parola, o i loro gesti visto che non tutti parlano, che ti curano l’anima. E ogni giorno dico grazie a Dio per avermi fatto incontrare tante persone meravigliose che mi guariscono. In tutti questi anni, la forza che vedo negli occhi dei miei ragazzi mi ha fatto capire che le cose che veramente contano nella vita sono la gioia di stare con gli altri, il rispetto, la forza della pazienza di aspettare i risultati, il coraggio di provare a cambiare la propria situazione o il coraggio ancora più grande di accettarsi diversi da come si vorrebbe essere. Visto che io non sono una sanitaria mi sono chiesta spesso cosa potessi fare per risollevare i miei ragazzi. Poi ho pensato che Gesù inizia dal prendersi cura degli ammalati. Sia nel corpo che nello spirito. E in tutti questi anni ho capito che quello che risolleva lo spirito dei miei ragazzi è un po’ di normalità. La normalità che per noi è scontata ma per loro non lo è. Quindi io sono diventata una professionista nel fare la colazione al bar, nel pranzare fuori, nel fare shopping ai petali. Per noi questi sono riti veramente unici. Sembra quasi magico dire andiamo al bar a prendere un caffè. E lo sembra perché in quel momento anche i miei ragazzi fanno quello che fanno tutti gli altri. Perché anche se vivono in struttura, non sono malati così gravi da avere sempre bisogno di un medico, per fortuna. Loro hanno bisogno di normalità. Questa normalità fatta di visite dei parenti e di uscite quest’anno ci è stata tolta. In alcuni periodi è stata dura, anche perché i ragazzi non sempre si rendono conto che non si può uscire per una pandemia, non a tutti lo puoi spiegare. Ma il bello di essere comunità è proprio il sostenerci anche in questi momenti, siamo sempre pronti a ridere e scherzare per sdrammatizzare ogni situazione, anche le più difficili. Il bello di essere comunità è proprio questo, c’è sempre qualcuno che riesce a farti venire il sorriso. La comunità della nostra struttura poi è una comunità allargata. Nel senso che ne fanno parte di solito anche le famiglie dei nostri ragazzi. Le famiglie sono le più colpite dalla disabilità in quanto si devono ridefinire. E ognuna lo fa in modo diverso. Secondo le proprie possibilità. Vorrei però raccontarvi della comunità di Fabrizio. Lui ha sempre avuto in tutti questi 8 anni una famiglia e degli amici molto presenti. Lo venivano a trovare i parenti stretti tutti i giorni, gli amici una volta ogni 15 giorni. Beh questi sono amici non solo con la maiuscola, ma con tutte le lettere maiuscole. La comunità di Fabrizio è diventata un po’ anche la nostra, degli altri operatori e degli altri ragazzi. Loro includono tutti, ridono e scherzano come se ci conoscessimo da una vita. Questo è un sostegno per Fabrizio, per la sua famiglia ma anche per noi operatori. In una comunità non si sa mai chi è a guarire e chi è a curare perché i ruoli si scambiano di continuo. Io parlando di comunità vorrei ringraziare anche voi di Fellegara. A volte ci incontriamo nelle mie uscite e ne ricordo due in particolare, proprio di quest’ultimo anno di covid. Una volta appena ci avete visto ci avete lasciato il tavolino migliore del bar perché in tutti gli altri c’era il sole, la seconda volta abbiamo scambiato due battute scherzose. Ecco questo per me è creare il regno di Dio. Vuol dire avere persone che fanno gesti normali ma che in quel momento per te sono importanti. Persone che ti VEDONO. Ti vedono davvero, vedono che sei con una persona disabile ma non hanno paura, o imbarazzo più che paura, e ti trattano con normalità. Questa è la vera magia che solo Dio può fare. Una lezione di normalità io l’ho ricevuta da Giulia, una ragazza giovane che viene da noi ogni tanto per un sollievo alla famiglia, lei dice che viene per farsi i fatti suoi visto che a 30 anni dipende dai genitori per tutto. Bhe Giulia un giorno al bar mentre le stavo mettendo uno dei nostri bellissimi tovaglioli blu ( il mio intento era quello di non sprecarla, i ragazzi devono essere sempre puliti se no cosa pensa la gente quando li vede??? ) Giulia mi ha detto: Claudia è meglio una macchia sulla maglia che il tovagliolo, noi dobbiamo confonderci non distinguerci ancora di più. Io vi giuro che i tovaglioli blu nelle uscite non li metto più. Quindi, quando San Paolo dice di diventare imitatori di Cristo, io penso che per imitarlo e creare il suo regno, tante volte basti la normalità di un saluto, di una parola o di un sorriso.. che anche con la mascherina quando sorridi con il cuore si vede.”   Sara Belvedere “Buongiorno a tutti, mi chiamo Sara, sono un’infermiera e lavoro nel reparto di Pneumologia dell’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Mi è stato chiesto dal don di condividere con voi una piccola riflessione su questo vangelo, dato che questa settimana è stata particolarmente dedicata ai malati e alle persone fragili. Questo per rendere testimonianza della mia esperienza lavorativa. Assistere e prendersi cura delle persone che vivono nella sofferenza credo che sia qualcosa di delicato, perchè, proprio perchè essere umani, in condizioni di malattia non è solo il corpo a risentirne, ma c’è tutta una sofferenza dell’anima, di vissuto di dolore che è inevitabile non considerare. E’ difficile dare voce ad emozioni e sentimenti che si provano lavorando con persone che vivono nella sofferenza. In particolare dallo scorso anno, lavorando in un reparto tutt’ora molto coinvolto nell’emergenza covid 19, è molto piu’ impegnativo, sia a livello fisico che emotivo, perchè da un giorno a un altro la sensazione è stata quella di essere catapultati in un concentrato di sofferenza, di dolore, di solitudine, di paura, tutta insieme ed improvvisamente. Credo sia importante rivolgere le giuste parole e gesti verso chi soffre, di tutte le malattie, ma anche avere il tempo di metabolizzare ciò che si vive, anche se indirettamente come operatori sanitari, è importante. Quest’emergenza non ci ha dato tanto il tempo di capire all’inizio ciò che stava accadendo , è stato devastante, perchè tantissime persone, giovani e anziani, erano li, si affidavano a noi, che giorno dopo giorno abbiamo imparato sempre di piu’ a ripondere alle loro richieste di aiuto, nonostante inizialmente impreparati. Leggendo questo passo del vangelo penso che l’incontro tra Gesu’ e il lebbroso sia molto toccante e assolutamente attuale. Mi sono soffermata a riflettere su diverse parole che mi hanno colpita. Nel Vangelo si dice che Gesu’ ha COMPASSIONE del lebbroso, ma non in senso negativo, io credo significhi che ha riconosciuto con il cuore la sofferenza del malato, ha accolto il suo dolore. Questa situazione si può trasferire nella nostra quotidianità, perchè ogni giorno è possibile vivere queste situazioni, ma ciò che è importante è saper aprire il cuore, avere la forza di rapportarsi con il dolore e di stare accanto a chi soffre, per tanti motivi. Sarebbe troppo facile stare in disparte, per paura di essere troppo coinvolti, ma siamo umani e la sofferenza fa parte della vita, anche se a volte è una croce enorme da portare e come si fa a fare finta di niente davanti a chi implora aiuto? Io credo che prima di aiutare bisogna imparare a fare il sottile passo che lo precede, ovvero ciò che Gesu’ ha fatto, riconoscere chi soffre, non ignorare. Purtroppo l’indifferenza è tanta, ma quando qualcuno è in grado di accogliere il nostro grido di aiuto, in maniera gratuita, è una cosa meravigliosa. Ci fa sentire meno soli in situazioni di sofferenza e la croce diventa piu’ leggera da portare. Un’altra parola che mi ha portato a riflettere è stata quella del “TOCCO”, perchè Gesu’ tocca il lebbroso, in quell’epoca considerato dalla società una persona assolutamente da evitare, un escluso da tutto e da tutti. Tuttavia Gesu’ non ha paura e lo accoglie, dedicandogli del tempo. Mi viene da pensare a quanto bisogno avremmo di abbracciare, di riprenderci un po’ i gesti di affetto, da rivolgere anche a chi vive la malattia nel quotidiano. Grazie al mio lavoro, però, ho davvero avuto modo di capire quanto sia significativo il comunicare con empatia con i malati, ho imparato che, anche se il tempo sembra sempre essere poco e ci sono tantissime cose da fare in una giornata lavorativa e sei stanco, una parola di conforto e un sorriso possono fare la differenza. Ho capito quanto sia fondamentale preservare la dignità dei malati, a porsi con delicatezza davanti a chi in poco tempo non può e non riesce, o ci riesce con molta fatica, a compiere gesti che prima facevano parte del quotidiano, come parlare, camminare, muovere le dita, mangiare e bere in autonomia, perchè, per esempio, attaccato a un ventilatore che lo aiuta a respirare. Spesso la cosa più importante di tutte è dedicare del tempo, perchè lancia un messaggio di positività, ovvero sono qui accanto a te e ti ascolto, in maniera sincera e vera. Credo che dedicare tempo ai malati sia purtroppo una delle battaglie più dure che viviamo al lavoro in questo periodo, perchè si lavora in condizioni diverse, vestiti dalla testa ai piedi, si è piu’ stanchi e i ritmi sono un po’ cambiati. Tuttavia questo non ci impedisce di dedicare tempo a tutti i tipi di malati, perchè una semplice attività di cura può diventare piu’ significativa se associata al giusto modo di comunicare, se ci si pone in ascolto del malato. Bisogna ammettere che risulta anche molto gratificante sentirsi dire grazie, anche se si è fatta una cosa piccola, in realtà può essere di grande aiuto e un gesto molto significativo. Il fatto che Gesu’ tenda la mano verso il lebbroso è un gesto meraviglioso. Penso abbia un significato profondo, perchè credo che rappresenti la comunione tra Dio e l’uomo, quest’ultimo con le sue fragilità, con la sua condizione di malattia, che provoca ferite non solo al corpo ma nel cuore e nella mente, che può portare alla solitudine, all’emarginazione, al dolore, porta a un cambiamento della propria vita. Gesu’, però, può rimarginare le ferite, può purificarci, aiutandoci a sorreggere il peso della sofferenza. Penso che la buona notizia sia che questa. Tutti noi possiamo impegnarci a essere un po’ piu’ simili a Gesu’, possiamo tendere la mano a qualcuno, questo ci rende uomini, ovvero la carità. Questo lo si può fare aiutando chi vive la malattia a non convivere nella solitudine per esempio, a non emarginarsi come faceva il lebbroso. Vuol dire stare accanto in qualche modo, tendere la mano a chi sta vivendo gli ultimi giorni della propria vita, a chi è lontano dai propri cari, come sta succedendo in questo periodo, a chi ha mille progetti di vita che ha dovuto mettere da parte perchè malato, ci sono tanti modi di stare accanto. Tuttavia, mi rendo conto che si può anche imparare da chi è in una condizione di fragilità. Mi fa riflettere la pazienza, il coraggio, la voglia di mettercela tutta per guarire, di sorridere e di scherzare, nonostante tutto, che mi capita di vedere nei pazienti, senza negare che ognuno comunque ha le sue debolezze. La guarigione non riguarda solo gli ammalati, ma anche chi riesce a tendere loro la mano, perchè riempie il cuore di emozioni profonde e ci apre a una comunicazione autentica con il prossimo. Ringrazio per questa bella opportunità di condivisione. Grazie per l’ascolto.”   Davide Germini “Nella prima lettura che la liturgia oggi ci propone, si nota in modo chiaro come ai tempi di Mosè un malato di lebbra venisse considerato “impuro” nonché peccatore per tutta la durata della sua malattia. Questo mi fa riflettere innanzitutto se, al di là della lebbra, qualcosa è cambiato nel corso della storia. Purtroppo, ancora oggi, certe patologie e certi ammalati sono, come si dice, “stigmatizzati”, cioè sono visti come “diversi”, come qualcosa di lontano da noi e da cui stare alla larga. Mi vengono in mente alcune persone che ho conosciuto nella mia esperienza lavorativa, soprattutto pazienti che afferiscono ai servizi di salute mentale o con disabilità di diverso tipo. Spesso c’è chi prova quasi un senso di vergogna ad avere a che fare con loro, chi vive questo incontro con difficoltà oppure stranezza. Credo che però la maggior parte di queste reazioni siano dettate dalla non-conoscenza e dalla mancanza di consapevolezza rispetto a quella situazione/patologia. Una volta che si entra in relazione con queste persone, infatti, si possono toccare con mano delle qualità, che magari in un primo momento ci sembrano “nascoste” dalla patologia o dalla condizione ma, se si cerca di lasciarsi trasportare da questo incontro, si esce sicuramente arricchiti. Anche il lebbroso che compare nel Vangelo è considerato “impuro” e si conosce bene la loro condizione dell’epoca. Isolamento, solitudine, diversità, fragilità, percepire una chiusura dell’altro che può portare ad un senso di frustrazione. Frustrazione che già è presente per la malattia stessa e che non può far altro che essere accresciuta esponenzialmente e portare ancora di più ad isolarsi e a non aver fiducia in chi incontriamo. Avere la lebbra era come se ti cambiasse la prospettiva e ti facesse vedere le cose diversamente, partendo dal tuo malessere. Attualmente, da alcuni mesi, lavoro in un reparto di isolamento per persone positive al Covid-19 con sintomi lievi. In questo contesto lavorativo devo ammettere che la solitudine che viene dettata dall’isolamento e dalla quarantena è spesso tangibile. Si sente il peso del non potere vedere i familiari, del non poter fare due chiacchiere. Sembra quasi come se si rimanesse fermi, in pausa, da soli mentre fuori dalla camera il mondo va avanti. Gesù, come spesso accade, riesce a darci una visione differente della situazione. E lo fa con dei gesti in apparenza semplici, ma pieni di grande significato: “Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse”. L’avere compassione: la capacità di partecipare del dolore altrui, facendolo proprio e condividendolo. Potremmo quasi affermare che Gesù è l’essenza stessa della compassione intesa in questa ottica. Tante volte nel corso dei Vangeli leggiamo episodi di compassione e solidarietà verso qualcuno più sfortunato o in condizione di disagio. Questo atteggiamento del “patire con” apre la parte più profonda di noi stessi e non solo la nostra mente, ci dà maggiore consapevolezza di chi ci circonda, ci fa riconoscere l’altro non come la sua malattia ma come persona, con delle necessità ma anche con punti di forza. Ci porta dritti al suo essere. E’ un sancire un rapporto, una relazione di cura-che cura. E’ un voler puntare alla qualità della relazione. Il tendere la mano: voler farsi prossimo. Cercare di instaurare una relazione, cercare di trasmettere qualcosa all’altro. E’ segno di voler esserci, che tenta di aprire le porte alla fiducia e all’accoglienza, quella autentica, che va oltre. Il tocco: segno forte di presenza, di vicinanza, di affetto. Ma è un segno forte anche per noi che “tocchiamo”, ci rende consapevoli che siamo lì per quella persona che abbiamo di fronte, che l’accogliamo così com’è, senza vincoli, pregiudizi oppure pretese. Il gesto del toccare un lebbroso che compie Gesù va contro i canoni dell’epoca, va oltre la malattia e dritto alla persona. Dire: quante volte capita, proprio a lavoro, di non saper trovare le parole giuste per comunicare notizie o cambiamenti che sappiamo difficili? Quante volte mi accorgo che il peso delle parole che dico, anche quelle che mi sembrano più banali e insignificanti, possono essere vissute da chi le ascolta come “parole di grazia”, di sollievo oppure pesanti, inaspettate, che ti fanno sbattere la testa, che non le vuoi sentire? Aggiungo anche la dimensione importante e fondamentale dell’ascolto, da collocare prima di tutte queste. Senza un ascolto vero, attivo, partecipato, le fasi successive sarebbero ridotte o addirittura senza significato. E Gesù ascolta, prima di parlare. Ascolta il grido e le preghiere di questo lebbroso che chissà da quanto tempo gli correva dietro. E’ questo il primissimo passo dell’accoglienza. E mi chiedo, nel mio essere infermiere, sono in grado di ascoltare come si deve? Di ascoltare davvero, a fondo? Al termine della seconda lettura però, san Paolo ci esorta: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo!” Ecco, credo che diventi fondamentale “imitare Cristo” in questi gesti che vanno oltre. Ma con l’attenzione che non diventino una routine fine a se stessa ma cerchino, in ogni contesto, di rispettare e valorizzare chi si ha di fronte. A partire da quando la situazione è sotto controllo, quando si fa fatica a trovare le parole fino a quando non c’è più niente da fare. A volte accade che al termine di una giornata lavorativa ripenso un po’ a come sia andata. Mi viene da chiedermi spesso se è stata una buona giornata. Se avessi potuto usare parole diverse per dire certe cose, dedicare più tempo a qualche persona che ne avrebbe avuto forse più bisogno. Chiedo al Signore che possa darmi la capacità di voler ricercare sempre, ogni giorno, sul campo come nella vita, una relazione vera, autentica, personalizzata e focalizzata sulla persona e sui suoi bisogni. E chiedo ancora al Signore di non mancare di umanità, nel mio lavoro ma anche nella mia quotidianità, ma di riuscire ad accogliere per davvero chi mi sta di fronte, di dedicare il tempo necessario al dialogo senza che la frenesia delle cose da fare vada a penalizzare queste relazioni preziose, ad avere la capacità di mettermi nei panni dell’altro, crescendo ogni giorno con pazienza, passione e professionalità.”   Paola Lusetti “Buongiorno, sono Paola e sono un medico di famiglia. Mi è stato chiesto di condividere con voi alcune riflessioni,ricollegandole alle letture di oggi, su cio’che abbiamo vissuto nel nostro lavoro,durante questa pandemia.All’inizio di tutto, circa 1 anno fa’,noi medici di base, avevamo forse un po’ sotto valutato cio’ che stava per succedere.Pensavamo fosse un virus, nuovo si e forse un po’ piu’ cattivo del solito, ma che avrebbe fatto piu’ o meno il decorso che fanno ogni anno, i virus influenzali. Invece, ci siamo accorti ben presto, che stava succedendo qualcosa di molto diverso. Nessuno di noi, avrebbe potuto immaginare, che saremmo capitati dentro ad un simile scenario. Qualcosa di invisibile e potente, come solo i virus sanno essere, stava cambiando la vita del mondo. La mattina, arrivando in ambulatorio, ci chiedevamo: Ma ce la faremo a contenerlo ? Quello che stiamo facendo servira’? Abbiamo visto i nostri colleghi ospedalieri e gli infermieri stremati dai turni e dalla tensione. Abbiamo visto le famiglie con i bambini piccoli,chiuse in casa in spazi ristretti. Abbiamo visto gli anziani, quelli che andavamo a visitare a casa una volta la settimana, morire da soli in un letto di ospedale. Ci sembrava, anche se è difficile ammetterlo, di non farcela… E’ molto difficile dominare qualcosa che non vedi, sembrava di essere davanti a qualcosa di molto piu’ grande di noi. E cosi’ in effetti è stato.. Ci è venuto addosso un senso di impotenza, a cui non eravamo abituati. Una sana impotenza… Noi medici, dopo questa epidemia, dobbiamo dire la verita’ ai nostri pazienti. Non siamo noi i salvatori del mondo, dei supereroi, come qualcuno spesso crede, che salvano l’umanità dal dolore e dalla morte sempre e comunque. Questo ci lusinga, ma luccica di falsità.La medicina, la scienza, la tecnologia, non guariscono sempre e non si può allungare la vita oltre misura. Se vogliamo essere veramente sinceri, dobbiamo essere come Giovanni il Battista e dire: Non sono io che ti salvo, ma devi cercare Lui.Il lebbroso del Vangelo supplica Gesù, perchè Lui lo possa guarire. Noi possiamo solo, come il buon samaritano, ungere con olio e balsamo le ferite e i dolori dell’uomo e dell’umanità. Prima di questa pandemia, tante, troppe persone, si rivolgevano a noi per avere una soluzione pronta, sicura, definitiva alla sofferenza. Spinti dai progressi della scienza, si è cominciato a pensare che si poteva risolvere quasi tutto, a parte qualche malattia veramente grave.. La pandemia, ci ha riportato davanti agli occhi molto chiaramente, l’impotenza dell’uomo davanti al male. Questa consapevolezza ci fa bene. Ci pone nella condizione di figli, che hanno bisogno di un Padre. Al lebbroso, solo, impuro, cacciato fuori dall’accampamento, non resta piu’ niente, che non sia supplicare Gesù a gran voce che passa di lì. Molte persone, in questo difficile periodo, sono state poste “fuori dall’accampamento”. Isolate in casa propria in quarantena o da sole in ospedale. È lì, fuori dall’accampamento, che la compassione del Signore ci può raggiungere e salvare. Chiediamo allora, che questa luce dello Spirito, che ci è stata donata in questo periodo di grande sofferenza, continui a guidarci e ad illuminare gli eventi della nostra vita e del mondo intero, perchè possiamo riconoscere il Signore come nostro unico Padre e Salvatore.   Martina Fiaccadori “Ciao a tutti Io sono Martina, nella vita sono una infermiera e oggi mi è stato chiesto di raccontarvi un po’ la mia esperienza lavorativa alla luce del Vangelo di oggi. Sono infermiera da 12 anni e principalmente ho accompagnato in questi anni pazienti in Cure Palliative quindi affetti da patologie in fase molto avanzata di malattia. Nel raccontarvi di me mi piace partire proprio dalla immagine che viene descritta oggi dal Vangelo: da una parte il lebbroso che si inginocchia e che tocca terra, dall’altra quella di Gesù che si abbassa, si china verso di lui e gli tende la mano. Mi colpisce questa immagine perché mi ricorda quanto io veda nelle realtà: la malattia purtroppo è una situazione che mette in ginocchio, mostra tutte le fragilità umane nelle persone che si trovano a fare i conti con i propri limiti ma anche nelle persone che si trovano a prendersi cura degli ammalati. Quante volte i malati mi hanno raccontato del momento della diagnosi utilizzando termini come “è scoppiata una bomba”, “è stato un fulmine a ciel sereno” oppure evidenziano quanto la vita, le priorità, i bisogni cambino quando compare una malattia. Allo stesso modo anche le famiglie che si trovano a fare i conti con un malato in casa parlano di vere e proprie rivoluzioni che compromettono la vita e i ruoli di tutti coloro che si trovano a stare accanto al malato. Cosi come ai tempi di Gesù i lebbrosi erano temuti e tenuti a distanza, così oggi l’esperienza di malattia rischia di diventare fonte di solitudine ed abbandono. C’è in primis la solitudine del malato che fatica a condividere le sue emozioni, le sue paure e i suoi dubbi ma c’è anche la fatica di molte famiglie che vivono con mano la cronicità e raccontano storie di abbandono, solitudine e fragilità. Mi colpisce come nel rapportarci con la malattia ciò che emerge è tutta la nostra umanità: se noi seguissimo il nostro istinto umano, infatti, davanti a qualcosa di brutto, difficile e spaventoso scapperemmo a gambe levate! Quando ero in hospice e parlavamo di comunicazione con il malato utilizzavamo una immagine secondo me molto bella che era questa: in alcuni momenti quando comunichiamo con il malato dobbiamo avere la capacità di “stare sulla sedia che scotta”. Quando le parole si fanno difficili, quando la morte diventa argomento di discussione, quando la rabbia, la paura e la sofferenza richiedono di essere ascoltate la tentazione è quella di ricorrere a facili rassicurazioni, frasi fatte e cambi di argomento che poco accolgono il dolore di chi abbiamo davanti. Nel Vangelo di oggi Gesù fa un gesto rivoluzionario già 2000 anni fa e rivoluzionario anche oggi: Gesù di avvicina e tocca il malato! Avvicinando il lebbroso Gesù tocca un impuro, va oltre la regola di un tempo che era quella di tenersi a distanza da questi malati. Papa Francesco nel 2015 ha detto una frase molto bella: “non si può fare il bene senza avvicinarsi” che per me come infermiera si traduce nel “non puoi fare bene il tuo lavoro senza starci nella relazione con il paziente, senza vedere davvero la persona che ti sta davanti”. Gesù avrebbe potuto dirgli da lontano “si guarito!” e invece no, si è avvicinato e lo ha toccato. Gesù si avvicina ma soprattutto si lascia avvicinare, lo tocca e gli parla. Gesù vede il lebbroso, lo vede col cuore, entra a contatto con la sofferenza di quell’uomo, esprime la sua compassione e si lascia coinvolgere dal suo grido e dalla sua richiesta di aiuto. Guardando e toccando il lebbroso Gesù restituisce quell’uomo alla sua umanità, gli riconosce dignità innanzitutto come persona. Lo avvicina andando oltre alla sua malattia e alla sua sofferenza. Il suo toccare il lebbroso è segno del suo coinvolgimento. Gesù mette in opera lo sguardo di bene che Dio ha su ciascuno di noi e che va al di là delle nostre fragilità umane. Proprio lì, nel punto più estremo della fatica umana Gesù entra e lo fa sconvolgendo la vita del lebbroso. Lo guarda, lo ama e lo guarisce. Quando leggevo queste parole nel Vangelo mi sono ricordata che c’è un grande rischio che corriamo noi operatori sanitari ovvero quello di perdere di vista la persona che stiamo curando: quando la nostra preoccupazione diventa che cosa bisogna curare invece di chi stiamo curando guardiamo la malattia e non più la persona e il nostro agire diventa meno fecondo. Per concludere nel preparare questa testimonianza mi è stato chiesto quale è la buona notizia che leggo in questo Vangelo e come questo si colleghi con la mia esperienza lavorativa. La buona notizia che io vedo nelle parole di Gesù che si avvicina al lebbroso si racchiude nella parola SPERANZA. In un modo o nell’altro, in hospice o sul territorio, ho sempre lavorato con malati in fase avanzata di malattia, inseriti in un percorso di cure palliative e quindi paradossalmente l’immaginario di questa fase di malattia porta ad immaginare una completa assenza di speranza. Quale speranza è possibile se non posso più guarire? A fronte di una diagnosi drammaticamente infausta quale scenario se non la disperazione? E invece quello che ho sperimentato in questi anni è che la speranza, come uno spiraglio di luce che si insinua in una fessura, trova spazio anche nei momenti più bui e difficili. In hospice soprattutto ho visto come la speranza si mantenga valorizzando i piccoli passi, mantenendo aperte le finestre quando le porte si chiudono una dopo l’altra. Cosi in questi anni ho visto spegnersi la speranza della guarigione e accendersi la speranza della libertà del dolore, la speranza di poter vivere abbastanza da conoscere il proprio nipotino o vedere sposare la propria figlia, la speranza di poter tornare a casa e morire nel proprio letto invece che in un ospedale e tanti altri piccoli semi che nascono anche quando tutto sembra perduto. Per concludere volevo lasciarvi una testimonianza di una paziente che ancora oggi porto nel cuore e che secondo me rappresenta davvero la Speranza: ferma al letto, consapevole dell’avanzamento della propria malattia ella parlava della propria morte aspettandola non come LA fine ma come UN fine verso qualcosa di più grande dopo.”   Annalisa Talami “Il Vangelo di questa domenica in poche semplici frasi, lineari, descrive una scena che in realtà al tempo di Gesù era tutt’altro che scontata. Il protagonista è un lebbroso, proprio colui che attendendosi alla legge dei Giudei doveva essere segregato agli estremi della comunità, escluso, in quanto impuro, castigato da Dio con la lebbra come conseguenza dei propri peccati. Una malattia che non soltanto deturpa il corpo e la salute, ma che comporta una esclusione completa dalla convivenza con gli altri. E’ un personaggio anonimo che con tutto il coraggio e la forza rimasti fa il gesto disperato di rivolgersi a Gesù, con la speranza che almeno lui non lo cacci orripilato dal suo corpo, devastato dalle piaghe della malattia. Forse più che dalla fede, il lebbroso si lascia guidare dall’audacia: supera la paura e cerca aiuto, consapevole di non potercela più fare da solo. E a dire il vero, il lebbroso si rivolge a Gesù domandandogli non di concedergli la guarigione dalla malattia, bensì è un uomo alla ricerca della purificazione del proprio corpo. Ha perso tutto della sua vita e con disperazione cerca almeno un riavvicinamento a Dio. “Se lo vuoi”: Gesù immediatamente raccoglie la supplica dell’uomo che sta inginocchiato davanti a lui. Innanzitutto si ferma a guardarlo e ad ascoltarlo, senza cacciarlo, senza disgustarlo e instaura quindi con lui una relazione. Sgorga in Gesù il senso della compassione: si lascia coinvolgere e condivide la sofferenza assieme al lebbroso. Condivide il patimento, lo porta assieme a lui, rendendogli il carico meno pesante. Gesù non si limita a rispondere a parole: si muove anche fisicamente verso il lebbroso, si avvicina e tende la mano verso di lui. Come Gesù è stato toccato nell’animo dal lebbroso, così in modo reciproco cerca un contatto con quell’uomo, che ormai da tanto tempo soffriva la solitudine dell’abbandono. È un gesto che si scontra con le regole, che avrebbe reso Gesù a sua volta impuro, contagiato. Questa carezza, che viene prima delle parole, sembra voler scardinare la Legge per cui per potersi avvicinare a Dio, per poter aver accesso al tempio, bisognava essere purificati. Qui, il lebbroso si avvicina a Dio e viene purificato. Riprendendo la richiesta condizionale del lebbroso, Gesù con piena convinzione risponde che sì, lo vuole! Gli assicura senza titubanze che gli importa di lui, dei suoi bisogni e gli ridona una vita. Subito dopo, però, veniamo di nuovo riportati nel contesto di quei tempi e Gesù con tono che appare serio e minaccioso si raccomanda di non raccontare l’accaduto, ma di recarsi al tempio: era infatti compito dei sacerdoti ratificare le norme da applicare nei confronti di un lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse la serietà che appare trasparire dalle parole di Gesù nasconde rabbia e delusione per la situazione di schiavitù ed emarginazione per chi soffriva nel corpo per quella malattia, portando i malati a dubitare dell’amore di Dio. Quell’uomo, però, pieno di tutta la vita appena restituita, non si trattiene dal raccontare con felicità la Parola di novità che ha ricevuto. Disobbedisce a Gesù, che si ritrova quasi paradossalmente nella stessa condizione del lebbroso, al suo posto, costretto cioè a non poter più entrare in città, escluso, certo non per ragioni mediche, ma per non essere sommerso dalle richieste di aiuto corporale. Questo, però, non riesce a fermare il circolo di vita che è iniziato. Tutti lo cercano, vanno verso di lui, creando relazioni che amplificano la forza dell’amore di Dio. L’incontro con le persone che hanno una malattia è una circostanza, purtroppo, non insolita: in famiglia, tra i conoscenti, ogni tanto qualcuno deve affrontare una situazione difficile. Per alcuni questo incontro è quotidiano, parte della propria vita lavorativa, e le persone coinvolte sono sconosciuti, anonimi, proprio come il lebbroso del Vangelo di oggi. Persone che da un giorno all’altro si sentono dare un nome al loro male, che fa paura, che getta nella disperazione. E al male fisico, si associa subito un’altra immensa sofferenza, che il più delle volte è più ingestibile e profonda, conseguente alla sensazione di perdere tutto quello che negli anni si è costruito. E se è tanto impegnativo ricevere una diagnosi, non è da meno trovarsi dall’altra parte. Mi hanno insegnato che non si può arrivare impreparati a questo momento di comunicazione della malattia, da cui ha inevitabilmente inizio una relazione. Bisogna stare lì, anche quando avresti voglia di scappare lontano. Ed è forse anche per questo che il lavoro del medico è, per così dire, quasi un privilegio: si incontrano persone sconosciute, che poi hanno un nome, e che poi sono anche mamme, papà, fratelli, con le loro vite da raccontare.. e da ascoltare. Quando in ospedale entra un nuovo paziente, nel reparto dove lavoro, tra le cose quasi scontate è che dovrà rimanere ricoverato per tante e lunghe settimane, spesso mesi. In questo momento di restrizioni sociali, poi, la degenza si trasforma quasi in una reclusione: oltre ai medici e agli infermieri, i pazienti non possono vedere nessuno, perché non si può, ma soprattutto perché, come ben presto si rendono conto, stare insieme alle persone esterne rappresenta per loro così indifesi un pericolo. Allora ci ritroviamo a fare un giro visite imprevedibile: si entra nella stanza, ma non si può sapere se si riuscirà a svignarsela presto. Per questo è difficile anche stare dall’altra parte, o meglio, è difficile se si vuole stare dall’altra parte. Si deve imparare piano piano a stare lì, fermarsi, guardare la persona e mettersi accanto a lei, che racconta della sua malattia fisica e che giorno dopo giorno inizia anche ad affidarti il suo patimento più intimo e profondo. Per questo, penso, dentro al nostro reparto i pazienti hanno quasi tutti dopo qualche giorno già un soprannome: la Robbi, Enri, la Sabri, Willi. Ammetto che quando capita di dover entrare nella stanza di qualcuno che chiede del medico, spero spesso di non entrare da sola, soprattutto quando i pazienti sono giovani. Chissà adesso cosa mi chiede, penso. Sarò capace di rispondere? A cosa potrò mai essergli utile? Ecco, adesso mi inizia a fare tutte quelle domande scomode, che hanno risposte difficilissime, che forse non gli dirò mai per non farlo soffrire. Poi ci si accorge che l’unica cosa di cui forse aveva bisogno era di qualcuno a cui chiedere una sciocchezza, quasi come scusa per fare qualche chiacchiera insieme. E l’unica cosa che sta chiedendo è quindi un orecchio e un cuore pronti ad accogliere i suoi pensieri. Alla fine della visita, in modo automatico e sistematico mi viene da rispondere: ma figurati, anzi, grazie a te! Grazie per avermi permesso di entrare nella tua preoccupazione, nella tua felicità per un bel traguardo, nella tua fatica nel gestire una complicazione in più. E uscendo dalla stanza, un altro automatismo che mi viene è quello di porgere una carezza, cercando di far trasparire dagli occhi un sorriso nascosto dalla mascherina. Spesso si è in difficoltà a parlare di guarigione, di risoluzione e si parla più che altro di controllare la malattia. E con quella carezza sul volto si prova a far capire che sicuramente si sta facendo di tutto per curare il male, ma che si è lì anche per lenire la sofferenza dell’animo, offrendo qualche medicina relazionale per rendere più leggera la pesantezza della malattia. “E se hai bisogno per qualsiasi cosa, sai dove trovarci”. Si chiude la porta, come si chiuderebbe la porta della stanza della mamma e del papà o di tuo fratello in casa propria. Gesù la fa facile comunque.. sì, lo voglio! Sii purificato, sii sanato! Se fosse così semplice. Gesù, perché ci affidi la sofferenza di questa persona? Perché sta andando tutto male? Perché sembra inutile quello che stiamo facendo? Noi non siamo capaci di miracoli che guariscono. Però, forse, quello che ci viene chiesto e di cui possiamo essere capaci è spenderci in gesti di amore, mettercela tutta per restituire un po’ di umanità alla persona che si sente abbandonata e privata del valore della sua esistenza. Alcune volte va a finire male nel nostro reparto, come anche nella vita di tutti i giorni. Pure in modo inaspettato. Allora ancor di più vale la pena non pianificare miracoli, quanto soprattutto piccoli gesti quotidiani per contribuire e amplificare il circolo di amore che Gesù con la sua vita ha cercato di innescare. Nella lettera per la Quaresima che papa Francesco ha indirizzato alla chiesa qualche anno fa si leggevano queste parole, con cui concludo: “Vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni gesto di coinvolgimento nella situazione dell’altro è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli. E se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità?”   Silvia Sghedoni “Silvia, 36 anni, medico al servizio di Riabilitazione presso il Santa Maria. Credo che i Don abbiano avuto una buonissima idea nel chiedere ai laici di dare il proprio contributo come testimoni , perché non corriamo il rischio di andare in chiesta “ a fare teorie” , ma perché ci impegniamo perché la vita e la fede restino unite. Insieme a mio marito Stefano, apparteniamo alla fraternità dell’Ordine Francescano secolare ( OFS) , e per noi francescani secolari, l’incontro di San Francesco con il lebbroso ha un valore grandissimo, perché sappiamo che è quello l’Incontro che genera in lui la conversione, sappiamo che è un segno determinante nel suo cammino. Ringrazio quindi i Don che durante questa settimana mi hanno affidato l’impegno di preparare un mio contributo, perché per onorarlo al meglio ho avuto la possibilità di pregare, nella preghiera familiare, questo vangelo di Marco in cui l’incontro con il lebbroso si realizza con Gesù ( in fin dei conti, sulle orme di Frannceso, è poi Gesù che noi vogliamo seguire) Cosa ti colpisce di questo vangelo? Quello che mi colpisce di questo Vangelo, è la impossibilità di potere tenere per se la gioia che il Signore ci ha procurato nella vita, anche quando è Gesù stesso a chiederlo, non è possibile obbedirgli. Quando si riconosce l’opera di Dio nella propria vita , c’è un irresistibile bisogno di raccontarlo a tutti. Quale buona notizia ci leggi? Io leggo almeno 3 buone notizie in questo Vangelo ( e certamente ce ne sono altre che mi sono sfuggite) La prima buona notizia è che Gesù non scappa. Di fronte ad una condizione di estremo disordine, bruttezza, scompostezza in cui ci possiamo trovare ( quel che è rappresentato dal Lebbroso) Gesù non si tira indietro. Rischia la vita per incontrarci proprio nella condizione in cui siamo ( anche se fragili, malati) , Teniamo presente che la lebbra ( a cui per fortuna noi non siamo più abituati) è una malattia estremamente contagiosa, quindi Gesù nell’infrangere la norma igienica che imponeva un giusto distanziamento, sa di mettere a rischio la propria vita. La seconda buona notizia è che anche quando ci troviamo in condizioni di assoluta disperazione , disagio ( come il lebbroso) abbiamo la possibilità di fare , di cuore, delle preghiere molto molto potenti. Preghiere brevi, ma che dicono in modo sincero quello che ci sta a cuore. La terza notizia buona è che Gesù non resiste di fronte a tanta sincerità. Una preghiera semplice, fatta di verità e con il cuore, in totate fiducia e affidamento al Signore, è potentissima. Di fronte a tanta fiducia, il Signore agisce, opera nella vita di chi chiede con preghiera di cuore. Quali esperienze ti ricorda? Hai un racconto da condividere? Per me oggi, incontrare la lebbra significa incontrare qualcosa che, come la lebbra , mi fa paura, mi farebbe scappare, mi farebbe evitare l’incontro, Questo qualcosa per me, ad oggi, è la morte. La morte è per me, come la lebbra. Vi racconto allora un piccolo episodio in cui, la morte ( che io temo, come la lebbra), l’ho incontrata. E ho avuto la assoluta certezza di essere stata, tramite la Provvidenza, assolutamente accompagnata da Signore. Per me che faccio il medico della riabilitazione, è una assoluta rarità accompagnare qualcuno alla morte, eppure in questo anno mi è successo. Mi è accaduto di accompagnare un paziente speciale alla morte, è morto durante il mio turno di guardia pomeridiana. Ho avuto la Grazia di potere accompagnare lui all’incontro con Sorella Morte. La specialità di questo momento è derivata dal fatto che di solito, quando si fa il turno pomeridiano, ci sono sempre molti ammalti da visitare, il telefono che tengo in tasca suona spesso. Ecco, quel pomeriggio abbiamo avuto al Grazia del tempo: il telefono non è suonato per tutto il pomeriggio, e io ho potuto vegliare con la moglie il marito morente, siamo state insieme sulla soglia del Paradiso. Non è frequente per un medico ( che è proprio il medico di turno) avere il tempo per potere stare lungamente con gli ammalati. La seconda cosa che mi è successa è che, per trovare lo spazio in cui stare nella stanza con la moglie ed il marito, mi ero infilata come potevo in un angolino, e solo quando i segni della morte erano ormai evidenti, mi sono accorta che la posizione in cui sostavo da lungo tempo per assisterli era IN GINOCCHIO. Quasi che , incosciamente, avessi riconosciuto la Sacralità del momento che ci trovavamo a celebrare. Cosa ritrovi della tua esperienza lavorativa? Quali gesti di Gesù sono attuali nel tuo lavoro? I gesti di Gesù che come sanitari rendiamo concreti e a cui ci ispiriamo sono i 4 gesti elencati nel vangelo: “Ebbe compassione” la vicinanza ai pazienti, la loro comprensione; “tese la mano “ la vicinanza verso i pazienti non è solo un fatto di testa o spirituale , è una vicinanza fisica . Il lebbroso era in ginocchio a supplicare, e Gesù tendendogli la mano lo invita e rialzarsi da terra, la mano di Gesù solleva, ridona dignità. “lo toccò” il tocco, il modo in cui si esegue la visita, il tocco gentile, la vicinanza fisica che è necessaria “ gli disse” , la parola ,il dialogo, lo spazio necessario alla comunicazione, all’ascolto, alle spiegazioni. Concludo facendo insieme a voi una preghiera per tutti gli ammalati, per tutti i medici, il personale sanitario perché in tutte le condizioni, anche le più difficili, disperate, disgraziate abbiano la certezza di non essere mai soli.   Preghiera per la XXIX Giornata Mondiale del Malato «Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8) La relazione interpersonale di fiducia quale fondamento della cura olistica del malato 11 febbraio 2021 Padre santo, noi siamo tuoi figli e tutti fratelli. Conosciamo il tuo amore per ciascuno di noi e per tutta l’umanità. Aiutaci a rimanere nella tua luce per crescere nell’amore vicendevole, e a farci prossimi di chi soffre nel corpo e nello spirito. Gesù figlio amato, vero uomo e vero Dio, Tu sei il nostro unico Maestro. Insegnaci a camminare nella speranza. Donaci anche nella malattia di imparare da Te ad accogliere le fragilità della vita. Concedi pace alle nostre paure e conforto alle nostre sofferenze. Spirito consolatore, i tuoi frutti sono pace, mitezza e benevolenza. Dona sollievo all’umanità afflitta dalla pandemia e da ogni malattia. Cura con il Tuo amore le relazioni ferite, donaci il perdono reciproco, converti i nostri cuori affinché sappiamo prenderci cura gli uni degli altri. Maria, testimone della speranza presso la croce, prega per noi.   Scarica il documento completo...
    • Pensieri, Consigli e Ricordi
      Pensieri, Consigli e RicordiI Ragazzi di 2° superiore presentano: Pensieri, Consigli e Ricordi, da una quarantena appena conclusa La quarantena è stata difficile per tutti, ciascuno a modo suo ha cercato di conservare i legami con amici e conoscenti. Alcuni educatori, insieme a molti ragazzi della pieve, hanno deciso di cominciare a scrivere un giornalino che raccontasse questo tempo strano. Scegliendo di che argomenti parlare (le diverse rubriche) e trovandosi in gruppi più ristretti del solito hanno cominciato a lavorare. E’ sembrato così, a tutti i partecipanti, di continuare un po’ l’attività degli incontri in parrocchia, oltre che di portare avanti il tema dell’anno: il servizio. Speriamo perciò che questo giornalino possa essere utile a chi lo leggerà per sentirsi parte di una comunità che non abbandona, ma  c’è e ci fa. Scarica il giornalino...
    • Con Domenica 31 maggio 2020 riprendono le celebrazioni
      Con Domenica 31 maggio 2020 riprendono le celebrazionisecondo i seguenti orari in tutte e sette le comunità: Orario   8.30   9.00 10.00 10.00 10.00 10.00 11.15 11.15 11.15 19.00 Luogo Chiesa grande S. Teresa Chiozza Fellegara Iano Pratissolo Chiesa grande S. Ruffino S. Teresa Chiesa grande Capienza 126 persone 146 persone   79 persone   71 persone   40 persone   83 persone 126 persone   49 persone 146 persone 126 persone   Non c’è bisogno di prenotarsi.  Ci impegneremo ad osservare con attenzione tutte le indicazioni necessarie perché la salute di tutti (soprattutto quella delle persone più fragili) sia preservata e perché tutti possano partecipare con serenità. A messa sarà obbligatorio portare la mascherina e dovremo osservare una distanza di almeno un metro; se una persona non sta bene o ha il sospetto di essere stato in contatto senza protezione con persone positive è bene che stia a casa. Sarà fondamentale la puntualità, anzi meglio venire in anticipo. La prefestiva del sabato delle 19.00 sarà in Chiesa grande a partire dal 30 maggio Sono riprese le Messe anche a Ca’ de Caroli alle 8.30 e alla Chiesa di Ventoso alle 11.15   Chiesa dei Cappuccini La Messa feriale sarà alle 8.00 dal lunedì al venerdì Al sabato la Messa festiva sarà alle 18.30 Alla domenica (già a partire dal 24 maggio) la Messe saranno alle: 8.00, 11.00 e 18.30 È necessaria la prenotazione solo per la Messa festiva è possibile farla accedendo al sito:www.iovadoamessa.it o telefonando al Call Center: 347780 6746 o direttamente al Convento 0522 857534 Sono riprese le messe feriali tutti i giorni alle 8.30 in chiesa grande (al lunedì alle 10.30) tutti i giorni alle 19.00 in S. Giuseppe Desideriamo che questo inizio sia un’occasione di riscoperta dell’opportunità della Messa feriale e che la bellissima Chiesa di San Giuseppe sia vissuta come cuore di preghiera per tutta la Pieve. Durante le Messe potremo ricordare nella preghiera le sorelle e i fratelli che ci hanno lasciato, soprattutto coloro che non abbiamo potuto accompagnare come avremmo voluto. Agli ammalati o agli anziani che non riprenderanno subito a partecipare alla messa è possibile portare la comunione attraverso i ministri dell’Eucarestia. Al lunedì e al sabato dalle 9.00 alle 11.30 siamo disponibili per le confessioni in Chiesa grande. Il tempo che abbiamo vissuto forse ha fatto emergere tante cose di ciascuno di noi che possono essere messe davanti al Signore anche attraverso il sacramento della Riconciliazione. Ovviamente ci si può accordare anche direttamente suonando in canonica o telefonando ai sacerdoti. Da sabato 6 giugno riprenderà l’adorazione in Chiesa grande dalle 9.00 alle 11.00 in S. Teresa dalle 17.00 alle 19.00 La preghiera quotidiana e anche quella in famiglia sono state tra le belle scoperte di questo tempo che proveremo a custodire. Le segreterie riapriranno a partire del 1 giugno secondo i seguenti orari: Chiesa grande (0522 857511):  lunedì e sabato dalle 9.30 alle 11.30; martedì e giovedì dalle 17.30 alle 19.00 S. Teresa (0522 856596): lunedì, mercoledì e venerdì dalle 17.00 alle 19.00...
    • Riprendiamo a CELEBRARE INSIEME
      Riprendiamo a CELEBRARE INSIEMESecondo il protocollo d’intesa tra il Governo e la Conferenza Episcopale Italiana, firmato in data 7 maggio e secondo le disposizioni della nostra diocesi, sarà possibile riprendere le celebrazioni eucaristiche a partire da lunedì 18 maggio. Siamo consapevoli dalla sofferenza che molti hanno provato nel non poter radunarci per celebrare  insieme e nell’aver dovuto rinunciare a nutrirsi dell’Eucarestia in questi due mesi e mezzo. Abbiamo però sperimentato la presenza e la fedeltà del Signore in tanti altri modi e abbiamo imparato a cercarlo attraverso altre vie, che andranno custodite; siamo contenti però di poter riprendere a vivere insieme questo momento privilegiato di incontro con il Signore, che è l’eucarestia. Siamo coscienti che ci attende un tempo di “rodaggio” e del fatto che non potremo da subito celebrare come prima, ma questo non ci impedisce di cercare attraverso la cura della liturgia quel clima di preghiera, di festa e di vera comunione che desideriamo. È nostro desiderio riprendere a celebrare contemporaneamente il giorno del Signore in tutte le comunità; non sappiamo ancora se saremo pronti per domenica 24 maggio, ci stiamo però organizzando in modo da vivere con serenità e cura la ripresa delle Messe festive. Per ora iniziamo con le Messe feriali: in chiesa grande sempre alle 8.30 a parte il lunedì (10.30) e alla sera ad experimentum cominciamo a celebrare in San Giuseppe alle 19.00 tutti i giorni da lunedì a venerdì. Desideriamo che questo inizio sia un’occasione di riscoperta dell’opportunità della Messa feriale e che la bellissima Chiesa di San Giuseppe sia vissuta come cuore di preghiera per tutta la Pieve. Ci impegneremo ad osservare con attenzione tutte le indicazioni necessarie perché la salute di tutti (soprattutto quella delle persone più fragili) sia preservata e perché tutti possano partecipare con serenità. A messa sarà obbligatorio portare la mascherina e dovremo osservare una distanza di almeno un metro. Sarà fondamentale la puntualità (anzi meglio in anticipo), perché nel presentarsi a Messa iniziata si rischia di creare un po’ di disagio… magari è la volta buona che ci riusciamo a celebrare insieme fin dall’inizio. Ci saranno comunque delle persone dedicate all’accoglienza in modo da facilitare le cose. Durante le Messe potremo ricordare nella preghiera le sorelle e i fratelli che sono morti in questi mesi, soprattutto coloro che non abbiamo potuto accompagnare come avremmo voluto. In questo tempo un’attenzione particolare andrà rivolta agli ammalati o agli anziani che non riprenderanno subito a partecipare alla messa. Attraverso i ministri dell’Eucarestia, con le dovute cautele, si potrà portare la comunione. In questo tempo “intermedio” continueremo ad accompagnare le comunità con i commenti quotidiani alle letture del giorno e i sussidi domenicali per la preghiera nelle case. La preghiera quotidiana e anche quella in famiglia sono state tra le belle scoperte di questo tempo che proviamo a custodire. Appena possibile vi diremo quando riprenderanno le Messe domenicali, dando alcun indicazioni più precise, non sarà comunque necessaria nessuna prenotazione.   ESTATE Per quanto riguarda le esperienze estive date le circostanze attuali non possiamo ancora presentare una proposta chiara. Quello che al momento possiamo dire è che: Non ci sarà il Grest estivo a giugno nella forma degli anni scorsi, Non faremo i campeggi di 5^ elementare, 1^ e 2^ media (le famiglie che hanno già fatto l’iscrizione verranno contattate telefonicamente per la restituzione della caparra). Non escludiamo invece la possibilità di fare i campeggi di 3^ media e 1^ superiore, dandoci un po’ di tempo per capire come evolverà la situazione. Stiamo considerando la possibilità di poter proporre un’esperienza sul territorio rivolta ai bambini delle elementari e ai ragazzi delle medie. È nostro desiderio, infatti, essere vicini alle famiglie, dare la possibilità ai bambini e ai ragazzi di cominciare a incontrarsi per vivere una proposta educativa e dare ai giovani l’opportunità di svolgere un servizio; a tale proposito nelle domeniche 17, 24 e 31 maggio proporremo un corso per animatori....
    • Voci e pensieri per condividere questi giorni
      Voci e pensieri per condividere questi giorniLUCIANO MANICARDI, priore di Bose: Fare i conti con la fragilità che ci costituisce. Hai scritto un testo sulla fragilità dove già nelle prime pagine si viene invitati a diffidare dalla retorica o dall’esaltazione della fragilità. Eppure molta tradizione cristiana si è poggiata a lungo su questo… Mai come oggi, in questi tempi di pandemia, possiamo cogliere la dimensione onnipervasiva della fragilità. Semplicemente, essa è costitutiva della condizione umana e abita ogni realizzazione umana, abita la natura come la cultura, riguarda la salute come le condizioni economiche, il lavoro e le imprese, le relazioni interpersonali, sociali e politiche, riguarda la natura e la cultura. Tutto può spezzarsi, a seguito di un lungo processo di erosione, oppure improvvisamente, come l’epidemia di coronavirus ci mostra. Al tempo stesso, non mi pare sensato scrivere elogi della fragilità proprio perché essa è una realtà di fatto, è già lì, mentre è la fortezza, la fortitudo, una virtù che va costruita giorno dopo giorno. E va costruita proprio partendo dall’assunzione della fragilità. La fragilità ci riguarda, ne siamo impastati. Eppure oggi, anche a livello personale, è difficile fare i conti con essa. Noi tendiamo a rimuoverla e a dimenticarla anzitutto per motivi culturali, in quanto la fragilità contraddice l’immagine di forza, potenza, successo, “infrangibilità” che deve contraddistinguere una vita umanamente riuscita secondi i parametri mondani correnti. Ma anche psicologicamente la fragilità è temuta e spesso rimossa perché il toccarla, il prenderne atto, produce una sofferenza troppo grande e costituisce una ferita narcisistica. Il prendere atto della concreta fragilità che ci abita ci costringe a rinunciare ai sogni di onnipotenza in cui spesso prolunghiamo il nostro narcisismo infantile. E appunto, una delle lezioni che l’epidemia ci sta insegnando è quella della nostra non-onnipotenza.Ci sta insegnando la lezione dell’imponderabile, dell’imprevedibile e dunque ci invita all’umiltà della conoscenza. Una conoscenza adeguata deve mettere in conto l’imprevedibile. Per dirla con Edgar Morin, maestro del pensiero della complessità ampiamente ripreso nella Laudato si’ di papa Francesco, “la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze”. Tu scrivi che la fragilità resta il luogo di giudizio della nostra pratica di umanità.  E’ un appello, una domanda, che mette in gioco la cura e la  responsabilità. Tu sostieni l’urgenza di un’“etica della fragilità”. Che dovrebbe strutturarsi in che modo? L’etica della fragilità si radica nell’empatia. In quel movimento di immedesimazione e rispecchiamento che ci porta a sentire come nostra la sofferenza o la fragilità dell’altro. Gli atteggiamenti richiesti da un’etica della fragilità sono poi almeno questi due: da un lato, il riconoscimento della fragilità che ci abita che ci consente di accogliere anche la fragilità che abita negli altri;dall’altro, la cura delle persone ferite dalle fratture che la fragilità provoca. Questo il potenziale umanizzante insito nella fragilità. Fai un esempio.. Di fronte allo straniero, al migrante che, fuggendo da storie di sofferenza e disumanità, di povertà e di guerra, giunge nelle nostre terre ignorandone cultura, lingua, usi, ed essendo diverso per costumi e religione, o si entra in un dinamismo virtuoso di empatia per cui “sento” che la sua stranierità, con le fragilità connesse, è anche la mia e abita in me, e allora non sono spinto a odiare in lui ciò che vedo in me, o altrimenti il rischio è che la fragilità dell’altro non dia origine a nessuna risposta etica ma a risposte sadiche, violente, disumane. Lo sguardo è decisivo. Il rischio dell’uomo di sempre è di togliere il volto, di cancellare l’unicità. Se questo accade, e lo abbiamo visto spesso negli ultimi tempi, a prevalere è il disprezzo, l’odio. Uno sguardo umano ed etico sulla fragilità coglie la precarietà e anche la preziosità del volto segnato dal male, del corpo ferito, della storia spezzata e se ne sente interpellato e chiamato in causa. Chi guarda umanamente la fragilità scopre che la fragilità lo riguarda. L’odio, invece, non vede il volto, ma una massa indistinta, così che riesce a odiare gli immigrati, i musulmani, gli ebrei, e così via: non esiste più l’individualità dell’altro, non esiste più il suo volto, vera icona del trascendente nel mondo. Il volto, infatti, è luogo essenziale di cristallizzazione dell’identità. Il volto è epifania dell’umanità dell’uomo, della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità. La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. E gli occhi, specchio dell’anima, ne sono la parte ancora più indifesa, più fragile, che invita, per la sua stessa fragilità ed esposizione alle ingiurie esterne, ad averne rispetto e cura. Insieme però dici che della  fragilità si può fare buon uso. Ciò che conferisce alla fragilità non sono i suoi limiti ma il posto che i suoi limiti lasciano all’uomo per amare. E’ lo spazio della libertà. Che non è automatico o spontaneo. Come educarsi a questo? Un’espressione di Cicerone rappresenta bene un uso sapiente della fragilità. Nel suo trattato sull’amicizia, Cicerone scrive: “Poiché le cose umane sono fragili e caduche dobbiamo sempre cercare qualcuno da amare e da cui essere amati. Tolti infatti l’affetto e la benevolenza, ogni gioia è sottratta alla vita”. La fragilità è lo spazio, l’ambito al cui interno avviene la costruzione della nostra umanità. Così come la fragilità delle cose umane è stata l’ambito all’interno del quale Gesù ha costruito la sua umanità e la sua pratica dell’amore, giungendo perfino ad amare il nemico. Questo spazio è quello della libertà e anche della responsabilità. Educarsi a questo è educarsi a quell’etica della cura che comporta l’assunzione della compassione come criterio di giudizio sulla realtà: nella compassione vi è infatti il giudizio di gravità (vedo la situazione di debolezza, di sofferenza grave di una persona e non ne resto indifferente), vi è il giudizio di non colpa (l’altro è vittima, non colpevole), vi è il giudizio eudaimonistico (l’altro e il suo bene è un fine decisivo per la mia realizzazione umana). Nella fragilità si cerca di custodire le cose essenziali. Anche per la comunità cristiana è lo stesso. Cosa è bene – per i cristiani – custodire gelosamente in questo tempo? Nell’ultimo capitolo parli di “grazia della fragilità”. Cosa intendi? Qual è stato lo sguardo di Gesù sulla fragilità? Dicendo “grazia” intendo che il riconoscimento umile e realistico della concreta situazione di fragilità propria e altrui, conduce a fare di questa debolezza un elemento spiritualmente ricchissimo, potentemente umanizzante. La fragilità diviene creatrice di legami, agisce come ponte che istituisce rapporti tra diversi. Per quanto indesiderabile, la fragilità può divenire capace di mobilitare una società e di creare rapporti di solidarietà e dar vita a istituzioni che si prendono cura dei più bisognosi. Anche nella crisi del coronavirus abbiamo visto fiorire il sentimento di solidarietà che si esprime sia in manifestazioni gratuite, sia in generosità e dedizione e aiuto verso chi è più bisognoso. Ovviamente, il problema non è la fragilità in sé, ma ciò che se ne fa, il rapporto che istituiamo con essa, e allora, se riconosciuta e accettata, diventa fondamento di un agire etico. La fragilità è lo spazio in cui lo spirito umano può manifestarsi come resiliente, creativo, geniale. Certo, occorre uno sguardo che, invece di perdersi in complottismi e dietrologie, cioè cercando, come sempre nelle soluzioni di tipo moralistico, un colpevole, veda le vittime e si prenda cura di esse. Come ha fatto Gesù. Il cui sguardo non si è mai posato anzitutto sul peccato o sulla colpa dell’uomo, ma sulla sua sofferenza. E da lì è nata la sua azione di cura e di responsabilità per l’umano.   PAPA FRANCESCO:  Messaggio Urbi et Orbi – Pasqua 2020 Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua! Oggi riecheggia in tutto il mondo l’annuncio della Chiesa: “Gesù Cristo è risorto!” – “È veramente risorto!”. Come una fiamma nuova questa Buona Notizia si è accesa nella notte: la notte di un mondo già alle prese con sfide epocali ed ora oppresso dalla pandemia, che mette a dura prova la nostra grande famiglia umana. In questa notte è risuonata la voce della Chiesa: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale). È un altro “contagio”, che si trasmette da cuore a cuore – perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio. Il Risorto è il Crocifisso, non un altro. Nel suo corpo glorioso porta indelebili le piaghe: ferite diventate feritoie di speranza. A Lui volgiamo il nostro sguardo perché sani le ferite dell’umanità afflitta. Il mio pensiero quest’oggi va soprattutto a quanti sono stati colpiti direttamente dal coronavirus: ai malati, a coloro che sono morti e ai familiari che piangono per la scomparsa dei loro cari, ai quali a volte non sono riusciti a dare neanche l’estremo saluto. Il Signore della vita accolga con sé nel suo regno i defunti e doni conforto e speranza a chi è ancora nella prova, specialmente agli anziani e alle persone sole. Non faccia mancare la sua consolazione e gli aiuti necessari a chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità, come chi lavora nelle case di cura, o vive nelle caserme e nelle carceri. Per molti è una Pasqua di solitudine, vissuta tra i lutti e i tanti disagi che la pandemia sta provocando, dalle sofferenze fisiche ai problemi economici. Questo morbo non ci ha privato solo degli affetti, ma anche della possibilità di attingere di persona alla consolazione che sgorga dai Sacramenti, specialmente dell’Eucaristia e della Riconciliazione. In molti Paesi non è stato possibile accostarsi ad essi, ma il Signore non ci ha lasciati soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posto su di noi la sua mano (cfr Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, «sono risorto e sono sempre con te» (cfr Messale Romano)! Gesù, nostra Pasqua, dia forza e speranza ai medici e agli infermieri, che ovunque offrono una testimonianza di cura e amore al prossimo fino allo stremo delle forze e non di rado al sacrificio della propria salute. A loro, come pure a chi lavora assiduamente per garantire i servizi essenziali necessari alla convivenza civile, alle forze dell’ordine e ai militari che in molti Paesi hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze della popolazione, va il nostro pensiero affettuoso con la nostra gratitudine. In queste settimane, la vita di milioni di persone è cambiata all’improvviso. Per molti, rimanere a casa è stata un’occasione per riflettere, per fermare i frenetici ritmi della vita, per stare con i propri cari e godere della loro compagnia. Per tanti però è anche un tempo di preoccupazione per l’avvenire che si presenta incerto, per il lavoro che si rischia di perdere e per le altre conseguenze che l’attuale crisi porta con sé. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa e favorire, quando le circostanze lo permetteranno, la ripresa delle consuete attività quotidiane. Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri. Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni. Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa. Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria. Cari fratelli e sorelle, indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto. Con queste riflessioni, vorrei augurare a tutti voi una buona Pasqua.   PAPA FRANCESCO:  Non spegniamo la fiammella smorta e lasciamo che riaccenda la speranza Dal vangelo secondo Marco (4,35-41) In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». «Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai. Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza. Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).   MAURO MAGATTI:  Vita e morte si dan battaglia. politica, scienza e religione: ora di scelte Gli storici dicono che le grandi epidemie – insieme alle guerre e alle carestie – hanno la forza di scuotere intere civiltà provocandone la rigenerazione morale e spirituale. La rottura della quotidianità, l’esposizione alla morte, la sospensione delle regole sono i fattori che concorrono a questo risultato. In effetti, sappiamo che la parola di origine medica “crisi” indica il momento in cui un certo modo di vivere – rivelandosi improvvisamente insostenibile – va sostituito con un altro. Ecco perché crisi significa “separare” “decidere”. Sempre in medicina, il momento “critico” ? quello in cui si deve scegliere tra la vita – come riapertura del futuro – e la morte – come ripiegamento sugli elementi distruttivi che stanno all’origine della crisi. Noi oggi ci troviamo esattamente qui: sospesi tra la vita e la morte. Tra un passato a cui non si può tornare, un presente terribile e un futuro che non sappiamo immaginare. E che potrà essere molto peggiore o molto migliore. Per andare nella seconda direzione occorre discernere nella situazione che stiamo vivendo gli aspetti di speranza da quelli mortiferi. In quella battaglia a cui assistiamo ogni giorno in cui vita e morte si confrontano a viso aperto. La politica è più che mai in campo. Semplicemente perché nessuno può affrontare il virus da solo. Per sventare il pericolo abbiamo bisogno delle istituzioni collettive, peraltro messe a durissima prova. Coesione, capacità di decisione e di azione, disponibilità di risorse. A tutti i livelli la politica è potentemente chiamata in causa. Ma deve scegliere: prendere la strada dell’autoritarismo che cancella la libertà o scommettere sulla responsabilità di tutti in un quadro coordinato e coeso? Lasciarsi andare all’egoismo politico (esemplificato dall’assurdo e maldissimulato tentativo di Trump di “comprare”, in esclusiva americana, l’eventuale vaccino al quale sta lavorando una grande azienda tedesca) o farsi parte attiva di una battaglia comune nel nome di quella “Dichiarazione di interdipendenza” che Ulrich Beck qualche anno fa indicava come evoluzione necessaria della politica del XXI secolo? La prima strada porta alla guerra: scenario che oggi ancor più di ieri non si può escludere, ma si deve evitare con tutte le forze. La seconda via porta a una nuova stagione dove la cooperazione diventa leva e condizione per risolvere i grandi problemi globali che ci accomunano. La scienza (e le sue applicazioni tecniche) si trova anch’essa a dovere scegliere tra la vita e la morte. È sulla base delle indicazioni di alcuni scienziati che il governo inglese ha annunciato di non volere controllare l’epidemia puntando a quella che gli studiosi chiamano “immunità di gregge”. In nome di uno pseudo “realismo” scientista, si disegna così uno scenario apocalittico destinato a causare centinaia di migliaia di morti. Sacrificare i fragili per non pagare costi troppo alti. Non pensiamo che una democrazia come quella britannica possa permettersi una tale soluzione. Ma è certo che le dichiarazioni dei giorni scorsi fanno capire che la scienza può essere pensata in modo disumanamente cinico, in una logica di puro darwinismo sociale. Eppure, la stragrande maggioranza degli scienziati va nella direzione opposta: nelle ultime settimane abbiamo tutti visto straordinario spirito di abnegazione che ha unito medici, infermieri, ricercatori, studiosi che si stanno letteralmente consumando pur di salvare vite umane. Anche qui dunque ritorna il dilemma: ad affermarsi sarà un’idea di scienza che non si fa scrupolo di passare sopra la morte di migliaia di persone pur di arrivare al proprio obiettivo o una concezione nella quale lo sviluppo della conoscenza viene effettivamente messo al servizio della vita di tutti, a cominciare dai più fragili? Infine le grandi religioni, anch’esse chiamate in causa. Perché è chiaro che senza capacità di misurarsi con quanto sta accadendo le Chiese non avranno futuro. Anche qui ritorna il dilemma vita e morte. Da un lato, l’attrazione fatale verso le spiegazioni facili: il virus come castigo di Dio che si abbatte sulle nostre società peccatrici; le attese miracolistiche dove riappare l’idea di un Dio potente e vendicatore. Il ‘dio tappabuchi’ di cui ha parlato Dietrich Bonhoeffer. Dall’altro l’immagine di papa Francesco che, zoppicando, attraversa le vie di una Roma deserta per andare a pregare sotto il Crocifisso e l’icona della Madonna: un simbolo universale del ruolo profetico delle grandi religioni oggi. Spogliate dal potere politico, prive di conoscenza scientifica, esse sono chiamate a essere comunità in cerca di quel Dio che – in questi momenti difficili – si fatica a trovare. Nel momento in cui le nostre certezze si rivelano fasulle, le religioni hanno il compito di restituire spessore antropologico a quella condizione di precarietà che è la condizione costitutiva dell’essere umano. Nella consapevolezza che ‘preghiera’ – dal latino prece – ha la stessa etimologia di ‘precario’. E per questa via riscoprire che, più che la sicurezza – per definizione sempre vulnerabile – l’uomo è sempre alla ricerca della salvezza: come realizzazione della propria vocazione che, senza escluderla, non permette che sia la morte ad avere l’ultima parola sulla vita. Ecco dunque il dilemma: le religioni saranno capaci di sostenere l’esperienza dell’affidamento a un senso che pure, in questi giorni drammatici, non riusciamo a cogliere? Saranno cioè capaci di morire per rinascere, così da permettere all’uomo contemporaneo di non sprofondare nell’angoscia da cui rischia di essere travolto? Non sappiamo quanto questa crisi durerà. Né dove ci porterà. Sappiamo, però, che non saremo più gli stessi di prima. Vita e morte si stanno scontrando. In qualunque ambito della vita sociale ci troviamo a essere, occorre decidere da che parte stare.   AMEDEO CAPETTI:   “Al direttore – Sono un medico della prima divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, fino a ieri esperto di terapia antiretrovirale con 650 pazienti sieropositivi per Hiv, catapultato poi come tutti in reparto Covid. Oggi ho un attimo di pausa e le scrivo per condividere i pensieri che mi affollavano la testa questa mattina mentre guidavo per venire in ospedale. Il primo pensiero era stridente rispetto al forzato ottimismo che vedo in giro in questi giorni, gli applausi, la nuova idolatria per la classe medica e infermieristica. Sono, a mio parere, tutti comprensibili tentativi di esorcizzare una umanissima paura, ma deboli quanto al contenuto. Ce la faremo, infatti, cosa significa? Che dobbiamo guardare solo alla fine dell’epidemia saltando la drammaticità del presente? E poi: chi ce la faremo? Io e lei che ci scriviamo? Il popolo italiano inteso astrattamente? Tutto questo mi convince poco e mi lascia francamente perplesso. Secondo pensiero. Noto, e trovo che sia un sintomo molto importante, la scomparsa quasi totale del lamento. I miei pazienti invece di lamentarsi mi mandano ogni giorni messaggi per chiedermi come sto e anche per partecipare dell’esperienza incredibile ed eccezionale che sto vivendo. E questa è la vera ragione per cui ho deciso di scriverle. In effetti quello che io sto vivendo, ma credo sia esperienza anche di molti altri, è l’avverarsi di un fenomeno che non di rado noi medici vediamo in chi è scampato a un pericolo potenzialmente mortale: l’esperienza di aprire gli occhi e accorgersi che nulla è più scontato. Ossia che tutto è dono, dal risveglio del mattino, dal saluto ai propri cari a ogni piccola piega di un quotidiano che per alcuni è tutto da riempire, per altri come me è diventato, se mai era pensabile, più vorticoso di prima. La grazia di questa nuova coscienza di sé trasforma radicalmente ciò che facciamo, genera stupore, amicizia, ci si guarda e ci si dice: oggi non ci possiamo abbracciare ma un sorriso ci dice ancora di più di quanto potrebbe dire un abbraccio. Questa consapevolezza ci fa diventare partecipi del dramma dei nostri pazienti e non è assolutamente un caso che i miei colleghi mi chiedano di pregare non solo per i loro cari ma anche per i loro pazienti, come non era mai successo prima. E anche questo è contagioso. Ieri mi ha chiamato una signora di Crema per sentire notizie della nonna, ricoverata al Sacco, che è molto grave. Mi ha riferito dell’altra nonna, morta di Covid, e della mamma, in rianimazione a Crema, poi mi ha detto: “Vede dottore, all’inizio io pregavo, ora non prego nemmeno più”. Io le ho risposto: “La capisco, signora, non si preoccupi, pregherò io per lei”. Al sentirlo ha avuto un sobbalzo e ha risposto: “No, dottore, se lo fa lei lo faccio anch’io. E anche per la mia mamma, preghiamo insieme”. Tutto questo è ricchezza, grazia, che se più gente ne prendesse coscienza potrebbe a mio parere avere anche un grande valore civile: riconoscere che siamo fragili e che tutto ci è donato, a partire dal respiro, oggi così poco scontato, appianerebbe tante divergenze e discussioni inutili. L’ultimo pensiero è andato al dopo: esperienza comune è che dopo un periodo di grande entusiasmo con il tempo tutto si spegne e i vecchi vizi riemergono, come già lamentava Dante Alighieri rispetto al secolo che lo aveva preceduto. Cosa ci può salvare da questa prevedibile iattura? Per quello che ne capisco io è necessario che questa gratitudine diventi un giudizio riflesso su quello che sta succedendo, che è bene espresso dalla domanda e dalla curiosità che tutti ci facciamo in questi giorni e che ci mette insieme: qual è, al fondo, l’origine di tutto ciò? Perché improvvisamente i nostri occhi si sono aperti e abbiamo iniziato a intravedere il fondo reale delle cose? Dove ci può portare questa esperienza? Dove ritrovare questo sguardo così umano gli uni verso gli altri che in questi giorni vediamo in tante situazioni? Chi ci può aiutare? Per me l’esperienza dell’irrompere dello stupore nella vita, per cui nulla è mai scontato e tutto è dato, è iniziata molti anni fa, e quando riaccade è come una ripartenza che rinnova in me la certezza dell’origine. Per altri sarà un cammino nuovo. Io non posso e non voglio dare risposte precostituite perché ognuno potrà capire, come me, solo facendone esperienza. Ma posso suggerire la domanda, perché nulla cada nella scontatezza e nella riduzione, estetica o cervellotica. Poi sono arrivato in ospedale”.   ALESSANDRO D’AVENIA:  Tempo di miracoli «I miracoli sono accaduti persino nei giorni più bui del XX secolo. Mia madre ha creato per me un giardino dell’Eden in mezzo all’inferno. Mi costruì attorno un robusto muro d’amore e mi trasmise una sicurezza così grande che non trovai nulla di insolito nella nostra esistenza. Mi fece il regalo più prezioso di tutti: un’infanzia felice. Il fatto che vi sia riuscita entro i confini di un campo di concentramento nazista deve essere considerato un autentico miracolo». Le parole di Raphaël Sommer, famoso musicista praghese, sono dedicate alla madre Alice, pianista sopraffina, morta all’età di 111 anni nel 2014. Avevo già scritto un altro pezzo per la rubrica ma, quando ieri sera, abitando a Milano, ho visto le scene di panico in conseguenza della chiusura di intere regioni e province a causa del virus, ho capito che dovevo raccontare il «miracolo» di cui parla Raphaël. Era il 1942, racconta la bellissima biografia (Un giardino dell’Eden in mezzo all’inferno), quando Alice Herz-Sommer vide partire sua madre, 72enne, per un campo di concentramento. Non seppe mai più nulla di lei. Alice, pianista di fama internazionale, allora 38enne, si mise a vagare come una disperata per le strade di Praga, che con tutta la Cecoslovacchia era dal 1939 sotto il controllo tedesco. Fu allora che, in preda alla paura e al dolore, sentì una voce interiore: «Esercitati nei 24 Studi, ti salveranno». Era una sfida assurda: i 24 Studi di Chopin sono pezzi per pianoforte tra i più rivoluzionari e difficili, tanto che nessuno si era mai azzardato ad eseguirli tutti in un unico concerto. Quei brani divennero il credo di Alice, che cominciò a esercitarsi, 8-10 ore al giorno, per eseguirli alla perfezione. Le diedero una corazza, una disciplina e una forza di volontà straordinarie. «La musica rafforzò il mio ottimismo e salvò la vita a me e al mio bambino. Era il nostro nutrimento. E, infondendo gioia nelle nostre anime, ci preservò dall’odio, cancellando la paura e rammentandoci le cose belle dell’esistenza anche negli angoli bui di questo mondo». Quella bellezza salvò lei stessa e molti altri: faceva ciò che sapeva e poteva meglio di come avesse mai fatto. Così vinse la paura, e diede a tanti un motivo per continuare a lottare e non cadere nella disperazione in mezzo a condizioni tremende di fame, malattie, sporcizia e violenza. Il segreto del miracolo era nella bellezza e nell’umiltà a cui l’aveva educata la musica: «Chi sa accogliere in sé la dignità e la grandezza di un’opera di Bach o Beethoven, non rinuncia forse inevitabilmente ai suoi obiettivi egoistici, di modo che le presunte cose importanti diventano relative?». I miracoli, quindi, esistono, anche in tempi bui: siamo noi. Quello di Alice, con i necessari e dovuti distinguo, adesso è chiesto a ciascuno: fare meglio di prima quello che sappiamo e possiamo fare, per servire gli altri e dare loro speranza, come quelle ragazze che a Torino si sono offerte di fare la spesa per gli ultrasettantenni del loro condominio. Non dobbiamo solo obbedire (e sarà già dura per un popolo che con le regole ha un rapporto difficile) alle voci «esteriori» che ci dicono cosa fare per non aumentare il contagio, ma ascoltare la più sottile voce interiore che ci ricorda chi siamo e che cosa possiamo fare per gli altri, ciascuno nel suo ambito. Dedicarci a chi abbiamo in casa e, come possiamo, agli altri, ci farà riscoprire i loro bisogni e le nostre priorità. ALESSANDRO D’AVENIA:  Fragile: maneggiare con cura «Si mise in testa, lo sventurato, che era fatto tutto di vetro e, quando qualcuno gli si avvicinava levava urla tremende, supplicando con parole e ragionamenti assennati che nessuno gli si accostasse perché l’avrebbe rotto; perché lui era tutto di vetro, da capo a piedi». Così Miguel de Cervantes, in una delle Novelle esemplari, descrive Tomás, un giovane avvocato soprannominato «dottor Vetro» che, come il Don Chisciotte che l’autore scriveva negli stessi anni, è un folle che dice la verità a chi si crede normale. Tomás è stato avvelenato da una donna con un filtro magico che non ha però ottenuto l’effetto desiderato, obbligarlo ad amarla, ma ha sortito tutt’altro esito: sopravvissuto per miracolo, il giovane è infatti convinto di essere diventato di cristallo. I suoi amici cercano invano di aiutarlo. Lo abbracciano, esortandolo a far caso e a osservare come non si rompesse. In queste giornate drammatiche ci sentiamo di vetro anche noi. Fragili e impauriti da ogni contatto, ci siamo dovuti chiudere in casa. L’effetto è tanto inatteso quanto dirompente: le relazioni si mostrano nella loro nuda verità. Gli spazi stretti e il tempo largo provocano inevitabili attriti e scontri, eppure solo quando diventiamo trasparenti riscopriamo la qualità delle nostre relazioni. É lo stesso Tomás a offrirci la soluzione, infatti grazie alla sua follia, il giovane ha acquisito il potere della trasparenza: «Chiedeva che gli parlassero a distanza e gli domandassero pure quel che volevano perché avrebbe risposto a tutto con molto più senno, giacché era un uomo di vetro e non di carne; infatti il vetro, in quanto materia sottile e delicata, permetteva all’anima di operare con maggior prontezza ed efficacia rispetto al corpo, materia pesante e terrestre». Nel racconto di Cervantes, la fama di saggezza e schiettezza di Tomás si diffonde, e tantissimi si recano da lui per chiedergli consiglio o semplicemente per ascoltare la sua lucida pazzia: quel giovane dice la verità senza mezzi termini, smascherando menzogne e finzioni degli interlocutori. La stessa cosa può accadere a noi in questi giorni di relazioni «inevitabili». Da quanto tempo non affrontiamo ferite, silenzi, bugie, rancori, segreti, che ci hanno allontanato da chi abita con noi sotto lo stesso tetto? Adesso, proprio perché non ci possiamo più nascondere, come il dottor Vetro abbiamo la possibilità di rendere trasparente ciò che era stato oscurato dalle attività esterne quotidiane o opacizzato da ripetitive routine casalinghe. E la verità ritrovata potrà essere arma o cura. Sta a noi scegliere cosa fare della nostra condizione di uomini e donne di prezioso vetro di Murano: sottoposti al fuoco incandescente dell’emergenza, siamo costretti a tornare malleabili. Sapremo rimodellare le relazioni grazie a questa inattesa tenerezza o, rimanendo rigidi, ci frantumeremo a vicenda? Il tempo da passare insieme sembrerà lunghissimo, ma è un nulla in confronto a quello che può significare per la vita futura. Conosco famiglie che stanno riscoprendo la bellezza di stare insieme con passatempi dimenticati come i giochi da tavola o semplicemente consumando i pasti in compagnia; un marito che deve proteggere la moglie immunodepressa con una delicatezza nuova; fratelli incollati a serie TV che in altre occasioni non avrebbero mai guardato insieme; coppie che riscoprono interessi comuni dimenticati strada facendo; padri che leggono storie ai figli; madri che sprigionano la loro creatività per impegnare bambini chiusi in casa per tante ore; persone dello stesso condominio che si aiutano per la spesa o altre necessità… Possiamo imparare di nuovo a «maneggiare con cura» la fragilità degli altri: il virus è letale anche per l’individualismo che quotidianamente ci avvelena. Alla fine del racconto Tomás guarisce, ma tutti continuano a preferire il bizzarro dottor Vetro che diceva la verità senza mezzi termini: così è costretto a migrare dove nessuno lo conosce per iniziare una nuova vita. E noi sapremo fare tesoro di questi giorni di verità, anche se difficili, faticosi, a tratti impossibili, come un’occasione irripetibile di verità nelle relazioni fondamentali? Siamo stati costretti a diventare di vetro, cioè più autentici di quanto crediamo di essere normalmente dietro corazze, abitudini e ruoli che ci fanno sentire sicuri, ma spesso ci rendono oscuri proprio con le persone che hanno diritto alla nostra tenera e fragile trasparenza, per poterla amare. ALESSANDRO D’AVENIA:  Amuchina Continui a sfregarti le mani per eliminare ogni atomo di impurità. Cerchi una purezza impossibile sulla Terra, perché la Terra è terra: me lo ha ricordato mercoledì scorso il rito delle ceneri, polvere sono e polvere ritornerò. Allora ti guardi le mani che dai sempre per scontate, tranne quando ti rivelano a che cosa ti aggrappi per non affondare: ma io sono davvero solo polvere? Per gli antichi di puro c’era solo il vino non tagliato con acqua e il divino non tagliato col tempo, e quindi immortale: a noi mortali la vita «in purezza» non è data. Il tempo ci rende «sanamente impuri», in lotta continua contro la morte, e per questo fecondi e creativi nel costruire la vita. Un virus ci ha ricordato questa impurità, sgretolando la febbrile routine e mostrandoci le fondamenta su cui viviamo, perché è di fronte alla paura della morte che si vede chi siamo veramente. Le fondamenta di una società che si dice «progredita» appaiono incerte e siamo costretti a chiederci su cosa abbiamo costruito, in cosa abbiamo avuto fede e, magari, come ricostruire. Nel Decameron del Boccaccio, emergono le fondamenta che lo scintillante autunno del Medioevo consegnava all’Occidente come antidoto alla morte. Fortuna, Amore e Ingegno sono infatti gli argomenti attorno a cui ruotano i racconti (e la vita), perché Amore e Ingegno sono le due forze umane capaci di contrastare la Fortuna, il caos dell’intera vicenda umana. E noi? Assaltiamo supermercati e farmacie, ci isoliamo, consultiamo di continuo aggiornamenti e informazioni. Non si sa a chi credere e, in assenza di verità, la paura, senza un preciso oggetto, diventa angoscia, che rende l’agire assurdo. Alla Fortuna non opponiamo né Amore né Ingegno: non ci siamo allenati in tempi di pace. Ci difendiamo dalla morte accumulando cose, medicine, informazioni: abbiamo imparato queste risposte. E così viviamo nella paura senza interrogarla, come invece è chiamata a fare una manciata di polvere animata dal soffio di Dio. Ci crediamo così progrediti che, quando sbeffeggiamo chi è retrogrado, usiamo l’aggettivo «medioevale». Ma forse se ci riscoprissimo eredi di un umanesimo che ha lasciato un «mondo» di bellezza, proprio perché sapeva che – divino e umano – sono entrambi necessari per fare il «mondo», apriremmo vie nuove contro la morte. L’Amuchina rende le mani pure, sterili, ma sterile è anche chi non crea e ricrea la vita: non può e non deve bastare per quello che le nostre mani possono ricevere, dare e fare.   LA LUCE DIETRO ALLE OMBRE…. Ho visto degli arcobaleni disegnati dai bambini con le loro mamme esposti fuori da tante finestre…… Ho sentito mio figlio pregare per chi in questi giorni non puo’accompagnare nella morte un proprio caro all’ospedale… Ho visto una scritta sulla vetrina di un negozio “Coraggio, andrà tutto bene!” Ho sentito studenti che volevano partecipare anche alle videolezioni di classi non loro per la voglia di imparare, di parlarsi, di vedersi, di fare due chiacchiere… Ho visto un foglio sui campanelli di un condominio “Se qualcuno ha bisogno per la spesa, telefoni al numero…” Sento mio figlio telefonare tutti i giorni ai nonni per sapere come stanno… Ho visto educatori che per tenere vivo il rapporto con i loro ragazzi hanno “architettato” videochiamate di gruppo, momenti di preghiera in simultanea… Ho sentito un’ amica chiedermidi recitare insieme a lei alle 19 il rosario per il suo papà stando ognuno a casa sua… Ho visto insegnanti che per il desiderio di prendersi cura dei propri alunni son diventati improvvisamente esperti in didattica a distanza… TO BE CONTINUED…   FRANCESCA MORELLI:   “Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte. Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare… In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l’economia collassa, ma l’inquinamento scende in maniera considerevole. L’aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira… In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class. In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all’altro, arriva lo stop. Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con  un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro. Sappiamo ancora cosa farcene? In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia. In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto. Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato? In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunita, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro. Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci. Perchè col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto. Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.”...
    • Un pensiero sul come vivere la Settimana santa
      Un pensiero sul come vivere la Settimana santaIn quel tempo – oracolo del Signore – io sarò Dio per tutte le famiglie d’Israele ed esse saranno il mio popolo. Ger 31,1 Capita nelle ultime settimane di sentir dire “quest’anno non si fa la Pasqua”. Certo, sentiamo tutti la fatica di dover rinunciare alle celebrazioni liturgiche e ai sacramenti soprattutto nella Settimana santa, ma non possiamo dimenticare che la realtà della Morte e Risurrezione di Gesù Cristo è perennemente efficace e sempre accessibile nello Spirito per coloro che credono. Il non poterci radunare per celebrare insieme, non ci impedisce di comunicare alla Pasqua del Signore, che forse stiamo vivendo con più verità e partecipazione degli altri anni: pensiamo ad esempio a come molte persone hanno pregato di più in questa Quaresima, a come abbiamo dovuto fare i conti con noi stessi e con la nostra conversione, a come tocchiamo con mano la sofferenza e la morte e al tempo stesso ricerchiamo in Dio speranza e resurrezione. Ci siamo chiesti allora come vivere i misteri della settimana santa, il cuore dell’anno liturgico attraverso modalità inedite. Vorremmo aiutarci a pregare “dal vivo” nelle nostre case, a non avere paura di sperimentare (come in queste domeniche) qualche “liturgia domestica”. Qualcuno invoca una celebrazione in streeming per la Pieve. Non abbiamo nulla contro le Messe in TV, che per molti sono preziose e rappresentano il bene possibile, o che, come nel caso della  celebrazione del Papa di venerdì scorso, possono essere un momento di comunione ecclesiale molto forte. Ci sembra che le possibilità non manchino. Cerchiamo però di non ignorare l’opportunità che la situazione attuale ci offre: far emergere il carisma proprio di ogni battezzato: saper ascoltare lo Spirito, invocare, intercedere e lodare il Signore. Proviamo finalmente a riappropriarci dentro la nostra quotidianità del contatto con Dio, di gesti liturgici impastati con la vita e quindi ancora più veri. Per cui, attingendo anche al materiale che la nostra diocesi ha predisposto, abbiamo preparato cinque brevi momenti di preghiera da vivere in casa per celebrare l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, l’ultima cena, la passione, il sabato santo e la Resurrezione. Vi manderemo via whatsapp e caricheremo sul sito le tracce e gli audio per la preghiera. Il Vescovo stesso nei giorni del Triduo Pasquale ha scelto di celebrare alle ore 21.00 in modo che precedentemente ciascuna famiglia abbia modo di riunirsi per la preghiera in casa e per il pasto. Inoltre per il giovedì, il venerdì e la domenica di Pasqua vi invieremo alcune registrazioni di racconti ispirati alla narrazione evangelica. Sono un’opportunità di catechesi per i più piccoli (ma anche per i grandi), da utilizzare a discrezione delle singole famiglie. … qualcuno chiede per l’ulivo, un segno a cui molti sono affezionati. Ovviamente domenica nelle parrocchie non sarà distribuito. Dato che il tempo pasquale finisce il 31 maggio, vedremo di recuperare. Per chi può procurarselo, è possibile seguire la celebrazione del Vescovo in cui l’ulivo sarà comunque benedetto.   Altri pensieri e comunicazioni per questo tempo Molte persone ci hanno chiesto come farsi prossimi in questo momento alle persone che hanno più bisogno. Qualcuno si accorge di essere tutto sommato fortunato o di avere a disposizione più tempo o più risorse rispetto ad altri e allora si chiede come metterle a disposizione, ma non sa da dove cominciare. Il desiderio è buono, ma anche la domanda forse è da custodire. Come mai a volte facciamo fatica ad essere già in relazione con persone che hanno bisogno? Le risposte possono essere diverse: forse il pudore, il rispetto o la privacy ci limitano nel farci prossimi; forse abbiamo delegato alle istituzioni o al nostro Centro di ascolto certe condizioni di vita o certe situazioni complicate; forse, se stiamo bene, abbiamo relazioni con persone molto simili a noi… crediamo che non sia tempo perso interrogarci sul rapporto che abbiamo con chi fa più fatica a vivere. Questa situazione non ordinaria ha qualcosa da dire anche al nostro ordinario e può essere un’occasione di riflessione e di conversione anche sul nostro rapporto con la fragilità. Ovviamente ciascuno faccia la tara a questa riflessione, ma può farci bene pensarci su. In secondo luogo proviamo con semplicità a fare qualche telefonata; forse anche tra i nostri parenti, conoscenti, colleghi e vicini c’è chi è più spaventato, solo, preoccupato o in difficoltà economica. Infine, il Centro di ascolto ha continuato sebbene in modi diversi la sua attività; il comune ha attivato un servizio di spesa consegnata a domicilio al quale il gruppo Scout e altri volontari hanno partecipato; la Mensa quotidiana di Reggio è rimasta aperta; lo stato ha stanziato un fondo (reddito di emergenza) che arriverà ai comuni e aiuterà le persone più fragili… Il valore che possiamo aggiungere a queste cose come singoli uomini e donne di fede è la prossimità, la relazione. A proposito di aiuti, senza voler dirottare le buone intenzioni, ricordo anche la situazione delle nostre comunità parrocchiali, che attraverso la Casa della carità, il Centro di ascolto e alcune accoglienze (12 persone in questi giorni) cercano di essere attente ai più bisognosi e svolgono tutto l’anno nella totale gratuità un servizio di accompagnamento nella fede per tante persone. Anche le comunità parrocchiali sono casa nostra e anch’esse vivono di offerte. Dalla scorsa settimana ogni lunedì facciamo un breve momento di preghiera presso l’ospedale riservato ai pazienti e al personale in cui è possibile ricevere l’assoluzione generale per gli ammalati che lo desiderano. Continuiamo tutti a pregare per gli ammalati, il personale sanitario e le loro famiglie. Sicuramente una delle cose pi dolorose di questa vicenda è il non potere accompagnare come si vorrebbe la malattia e il distacco. Per le famiglie che avranno a che fare con la perdita di qualche persona cara, ricordiamo che un sacerdote o un diacono è sempre disponibile, ove possibile, per dare una benedizione per pregare insieme. Possiamo almeno sentirci telefonicamente e ricordare i defunti nelle Messe che celebriamo in casa. Sul sito trovate un piccolo commento quotidiano alle letture preparato dai sacerdoti. Sempre sul sito della Pieve (www.pievescandiano.it) troverete man mano le tracce per la preghiera da vivere in casa nella Settimana santa. Calendario delle Celebrazioni diocesane in streaming presiedute dal Vescovo Massimo http://www.diocesi.re.it/celebrazioni-eucaristiche-trasmesse-in-streaming-e-videomessaggi-del-vescovo/    5 aprile           Domenica delle Palme ore 10.30 9 aprile           Giovedì Santo ore 21.00  Messa nella Cena del Signore 10 aprile         Venerdì Santo ore 21.00 Via Crucis a cura dell’Ufficio di Pastorale della Salute 11 aprile         Sabato Santo ore 21.00  Veglia Pasquale 12 aprile         Domenica di Pasqua ore 10.30  … per gli auguri ci sentiamo la prossima settimana. Buona settimana santa, uniti nel Signore....
    • Seconda Lettera alla Comunità
      Seconda Lettera alla Comunità21 marzo 2020 Primo giorno di primavera Carissimi tutti, in questi giorni difficili, condividiamo con voi alcune riflessioni nel desiderio di essere vicini gli uni agli altri… la vostra premura e preghiera la sentiamo. Non è facile dire qualcosa a ciascuno. Da un lato, infatti, ci sentiamo tutti sulla stessa barca: la preoccupazione per noi stessi e per le persone a cui vogliamo bene, la possibilità del contagio, l’incertezza dei prossimi giorni, l’impegno responsabile dello stare in casa… sono cose che ci rendono tutti più umani, più uguali e forse più vicini, anche con le persone normalmente distanti da noi per mille motivi. Questa consapevolezza di essere come gli altri ci sembra preziosa, non scontata e da custodire. D’altra parte siamo anche coscienti delle situazioni molto diverse che toccano le nostre vite. Ci sono infatti persone che possono vivere questo tempo come occasione per fermarsi, per gustare la casa e soprattutto le relazioni, per leggere, giocare, seguire maggiormente figli e nonni, pregare insieme; ci sono famiglie che hanno ammalati di Coronavirus in forme clinicamente rilevanti, che vivono la dolorosissima solitudine e distanza dai loro cari; ci sono famiglie che già vivevano altre condizioni di fragilità (disabili, malati oncologici, psichiatrici, dializzati, demenze, etc…) e hanno la quotidianità ulteriormente appesantita e complicata; ci sono famiglie in cui ci sono tensione e incomprensione, che verranno messe alla prova dalla convivenza forzata; ci sono famiglie con operatori sanitari che stanno lavorando il doppio togliendo tempo ai propri cari e vivendo grandi preoccupazioni; infine ci sono famiglie che si trovano nell’incertezza rispetto al lavoro con conseguenti difficoltà economiche e poi ci sono tante persone sole… Queste poi non sono condizioni statiche: non tutti i giorni sono uguali e ognuno ha i suoi momenti down; a volte ci si sostiene a turno, a volte ci si contagia in negativo, ma ci sono anche delle belle scoperte. Andrà tutto bene? Non lo sappiamo, forse non per tutti. Se essere ottimisti ci aiuta, proviamoci, ma forse ci è chiesto anche altro. Questa pandemia come tante altre malattie o situazioni di dolore fisico e psicologico non ha un senso scritto sulla scatola al momento della consegna, è piuttosto una pagina bianca sulla quale cominciare a scrivere, un pacco da scartare un po’ alla volta e provando a mettere insieme pezzo per pezzo. Ci stiamo provando anche noi e con molta umiltà vi consegniamo qualche semplice pensiero, qualche pezzo di questo puzzle, soprattutto per ciò che riguarda la vita spirituale e di comunità. Una Quaresima più vera e più comunitaria La coincidenza dell’inizio della quarantena con la “quarantina” quaresimale ha ridato valore al tempo della Quaresima. Questo tempo forte, che rischia di indebolirsi sempre più o di essere vissuto come una pratica personale, quest’anno, nonostante la privazione di tanti luoghi, appuntamenti e opportunità, è vissuto da tanti con più attenzione, con maggior fedeltà alla preghiera e forse con una percezione comunitaria molto viva. Davvero come Gesù siamo stati condotti in questo deserto e come lui proviamo ad attraversarlo e a vincere le tentazioni attraverso la relazione con il Padre e con i fratelli. Questa situazione ha messo in moto molta voglia di sentirsi, di raggiungersi, di esprimere la vicinanza anche in modi creativi e non ordinari. Si condividono pensieri, tracce e iniziative di preghiera; ci si sente in cammino verso una resurrezione ancora più attesa. Le Chiese vuote e le case luoghi sacri Certamente è una sofferenza non poter andare in chiesa e radunarci per l’eucarestia. Sicuramente riprenderemo a celebrare con più gioia e consapevolezza. Una persona alcuni giorni fa ci scriveva: Stamattina ero a Scandiano e volevo chiedervi di poter fare la comunione, visto che non vi ho trovato mi sono incamminata verso casa. Nel tragitto ho pensato che oggi sarò io l’eucarestia: quel pane spezzato che fa comunione, quel “date loro VOI STESSI da mangiare” che fa miracoli e toglie anche la sete. Questo digiuno dall’eucarestia, questo sacrificio, proverò in questi giorni di Quaresima a farlo diventare un’occasione per fare qualcosa di eucaristico ogni giorno. E proverò a farlo in memoria di Lui, come ci ha detto. Cercavo l’eucarestia perché cercavo un po’ di conforto in un momento di fatica… pregherò di più perché il Signore è sempre con me e il suo conforto c’è sempre… E magari in questa quaresima mi converto! Il Signore si incammina verso le nostre case, si intrattiene con noi, come presso il pozzo della Samaritana, nel Vangelo di domenica scorsa. Oggi può essere il tempo di una più grande intimità: il Signore ci chiama ad una confidenza unica, vera e profonda con Lui, nelle nostre case, luogo dove siamo o cerchiamo di essere il più possibile noi stessi. Forse stiamo riscoprendo l’aspetto sacerdotale del nostro battesimo nell’offrire la nostra quotidianità, nel vivere alla sua presenza, nell’intercedere per gli altri e nella preghiera in famiglia. Dal fare all’essere In questo tempo in cui il “fare” perde i suoi riferimenti e la sua consistenza, siamo chiamati ed“essere”, abbiamo la possibilità di scoprire chi siamo realmente, le qualità umane che il Signore ha posto in noi e che neppure la quarantena può spegnere, anzi, che può solo rivelare di più. Dal fare all’essere. Anche per noi sacerdoti questo tempo è come un setaccio: il fermarsi delle attività parrocchiali mette in luce ciò che rimane, quello che siamo davanti a Dio e alle comunità, spogliati dal “fare”. E qui si apre una domanda: libero dal “devo fare” cosa scelgo di fare?. In questo tempo diverso (per molti più dilatato) viene fuori cosa è importante, cosa desidero e quindi chi sono veramente. Anche come comunità per almeno due mesi non faremo più incontri, riunioni, formazioni eppure forse stiamo andando al sodo nella nostra quotidianità cercando di ascoltare la Parola, di pregare, di vivere l’attenzione reciproca. Di una cosa sola c’è bisogno, diceva Gesù a Marta… chissà se ci ricorderemo che esiste anche una pastorale più leggera ed essenziale? Ecco forse queste piccole tre cose, insieme alle tante che crescono dentro di voi, possono essere quel senso aggiunto che proviamo dare a questa situazione. Forse il senso aggiunto è la nostra conversione, non in senso moralistico, ma come ritorno alla verità di noi stessi. Il Signore ci aiuti a rimanere in ascolto. Sul sito trovate un piccolo commento quotidiano alle letture preparato dai sacerdoti. Sempre sul sito della Pieve (www.pievescandiano.it) trovate una traccia per la preghiera da vivere in casa nel giorno del Signore e altri spunti di riflessione e aggiornamenti. Vedremo come organizzarci per la Settimana santa Il calendario delle prossime trasmissioni (liturgiche e non) curate dalla Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla si potrà consultare al seguente link: Dociesi di Reggio Emilia Nel giorno di San Giuseppe (sfoggiando di nascosto la Chiesa) vi abbiamo ricordato tutti nell’Eucarestia e quotidianamente lo facciamo nella preghiera. Preghiamo tanto per tutti gli ammalati, per le persone che non possono star loro vicine e per il personale sanitario che si trova sulle spalle un carico professionale e umano grandissimo. Un abbraccio i vostri don Scarica la lettera...
    • Lettera del Vescovo alla Città e alla Provincia: le persone prima di tutto
      Lettera del Vescovo alla Città e alla Provincia: le persone prima di tuttoIn queste settimane di dura prova e di grande fatica, tristemente segnate da numerosi lutti, la Chiesa di Reggio Emilia – Guastalla ha cercato di rispondere nel modo più tempestivo possibile all’emergenza sanitaria, sociale ed umanitaria causata dalla pandemia, concentrando le proprie energie soprattutto a vantaggio dei più poveri e dei più vulnerabili. La “Mensa del Vescovo”, la “Mensa dei Cappuccini” e la “Mensa Caritas” hanno collaborato strettamente unite tra loro e così, ogni giorno, oltre 400 pasti sono assicurati alle persone che non possono cucinare nelle proprie abitazioni perché prive di utenze (gas, acqua, luce) e a tutti coloro che non hanno una fissa dimora. Inoltre, centinaia di “pacchi alimentari” vengono consegnati regolarmente ai lavoratori precari, alle famiglie disagiate e agli anziani soli presso il loro domicilio. Le Caritas Parrocchiali della Diocesi stanno intensificando i loro sforzi giorno dopo giorno, organizzandosi al meglio delle loro possibilità e con grande efficienza. Molti giovani volontari si sono resi disponibili ad aiutare, soprattutto effettuando le consegne a domicilio. La Conferenza Episcopale Italiana ha stanziato 3 milioni di euro a favore delle strutture sanitarie ed ha donato 10 milioni di euro alla Caritas Nazionale. La nostra Caritas Diocesana ha già ricevuto, da parte della Caritas Italiana, la somma di 10 mila euro per cominciare a coprire le spese straordinarie di questo periodo. A questa cifra vanno aggiunte le numerose e generose offerte di molti fedeli, ai quali va la mia personale gratitudine, così come la riconoscenza di tutto il nostro popolo. Questi soldi ci consentono di dotare tutti i volontari di un’adeguata protezione in termini di mascherine, guanti e protezioni per gli occhi, così come di effettuare regolarmente ed accuratamente la pulizia e la sanificazione degli ambienti. La scorsa settimana ho lanciato un appello affinché soprattutto i più giovani si mettano a disposizione per dare un aiuto concreto. Oltre ai già ricordati ragazzi che collaborano con la Caritas nelle parrocchie, comunico a tutti che centinaia sono state finora le persone che hanno dato gratuitamente la loro disponibilità per vari tipi di servizio. Questa risposta straordinaria è sicuramente un segno di vitalità e un grande atto di carità collettivo, che illumina e conforta tutti noi in un momento così buio e difficile. A tutte queste persone va la gratitudine della nostra Chiesa. Sappiamo che l’emergenza attuale riguarda tutti, ma ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli. La nostra Chiesa Diocesana guarda con grande attenzione e preoccupazione a queste persone. Famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà e non possono acquistare generi di prima necessità né sostenere il pagamento delle utenze domestiche. È quindi necessario rafforzare i “Centri di Ascolto” per tutte queste famiglie, così come per i tanti anziani che vivono soli e per le tutte le persone fragili in genere. Risulta più che mai indispensabile il nostro impegno per garantire il mantenimento dei servizi minimi a tutti coloro che si trovano in condizioni di povertà estrema. La collaborazione oggi è urgente come mai prima d’ora. Auspico che le Caritas parrocchiali e i comuni coordinino al meglio l’insieme delle iniziative di sostegno e assistenza. L’ottima esperienza di collaborazione già in corso in alcune realtà sia un esempio per tutti. A partire dall’inizio della pandemia, oltre cento persone sono ospitate 24 ore al giorno presso le “Strutture di Accoglienza” coordinate dalla Caritas Diocesana. Giorno dopo giorno registriamo l’aumento delle richieste. Ristoranti, aziende e privati stanno dimostrando un’immensa generosità, donando e condividendo ciò che possono. Grazie a loro e alla collaborazione del “Banco Alimentare” saremo in grado di far fronte all’emergenza anche nelle prossime settimane. Il Direttore della Caritas Diocesana, Isacco Rinaldi, mi ha confermato che “l’assistenza e la vicinanza alla fascia più debole della popolazione è assicurata in queste settimane e lo sarà sicuramente anche nei prossimi mesi”. Istituirò nei prossimi giorni, presso la Caritas Diocesana, un nuovo Fondo dedicato, che si chiamerà “Fondo San Carlo Borromeo”, a vantaggio dei più deboli. Tale Fondo sarà costituito inizialmente con risorse della Diocesi ed incrementato con le offerte dei fedeli, parrocchie, enti e istituzioni. Per contribuire al fondo basta fare un’offerta alle seguenti coordinate bncarie IT 67 O 05034 12800 0000 0000 1100 intestato a: Diocesi di Reggio Emilia – Guastalla presso Banco BPM Causale: Fondo San Carlo Borromeo. A tal proposito, come ricorderete, nei mesi scorsi avevo proposto a tutta la Diocesi un pellegrinaggio in Terra Santa programmandolo per la fine di dicembre 2020. Ritengo gesto di responsabilità, data la situazione attuale, rinviare tale pellegrinaggio a tempi migliori, forse già alla fine dell’estate 2021. A titolo personale, metterò a disposizione del “Fondo San Carlo Borromeo” quanto avrei speso per il pellegrinaggio. Auspico che anche altri pellegrini possano fare la stessa cosa. Non dimentichiamoci degli ultimi: certamente oggi ci sentiamo tutti in difficoltà e in pericolo: tutti abbiamo paura, ma molte persone vivono in condizioni estremamente gravi e problematiche. Ricordiamoci delle parole di Gesù: Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (Mt 25,40). Molti prospettano un’imminente nuova crisi economica: la mia preoccupazione si volge al blocco delle attività produttive e alle conseguenti difficoltà che molte famiglie incontrerebbero a causa dell’eventuale perdita del posto di lavoro. Penso a ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi, durante l’estate e ancora più nel mese di settembre, momento di ripresa dopo la pausa estiva. Perciò, in quanto Vescovo di questa Chiesa, desidero lanciare UN APPELLO A TUTTI, enti pubblici, associazioni di categoria, aziende e fedeli: impegniamoci tutti a salvare la dignità delle persone, concentrando ogni sforzo sul lavoro e non sull’assistenzialismo. Stiliamo già ora un piano straordinario di investimenti da far partire al più presto, non oltre il settembre 2020. Richiamo tutti alla necessità di uno sforzo straordinario in questo momento difficile. La fede in Dio è anche fede nelle possibilità del futuro. Mettiamoci tutti al lavoro affinché si possa, ciascuno nel proprio ambito, attivare fin dai primi giorni di settembre tutti gli investimenti possibili. Creiamo posti di lavoro, così da non trovarci a dover assistere coloro che lo perderanno. La dignità di una persona è salvaguardata, onorata e rispettata solamente permettendole di lavorare. Possiamo e dobbiamo farcela. Ho chiesto agli Uffici di Curia di stilare un elenco completo e dettagliato dei cantieri e degli investimenti da far partire in breve tempo. Risolviamo immediatamente gli intoppi burocratici, oggi più che mai incomprensibili e inaccettabili! Chiederò di fare altrettanto all’“Istituto Diocesano Sostentamento Clero” e alle parrocchie di tutta la Diocesi, così come alle nostre scuole, case di riposo e a tutti gli enti che dipendono dalla Diocesi. Sono certo che anche Comuni, Provincia, Regione, Sovrintendenza, Consorzi di Bonifica, Camera di Commercio, Fondazione Manodori, Unindustria, Confedilizia, Confcommercio, Confesercenti, Cna, Lapam, Confcooperative, Legacoop, aziende e privati faranno la loro parte. Non perdiamo tempo: investiamo le risorse che abbiamo a disposizione. Sono certo che anche gli Istituti di Credito faranno la loro parte. Incamminandoci sulla strada che ho cercato di delineare, decine se non centinaia di milioni di euro verranno investiti: in poco tempo potremo salvare e garantire molti posti di lavoro. Il nostro territorio, grazie alla sua fede, alla generosità e alla solidarietà che lo contraddistinguono e alla laboriosità dei reggiani, potrà così attraversare queste vicende drammatiche e ricordarle come un’immensa sfida. Una sfida vinta. Costata purroppo molti lutti e sacrifici, ma vinta. La nostra Chiesa Diocesana è pronta per ripartire. Il futuro della nostra terra dipende dalla benedizione di Dio e da noi, dalle nostre scelte, dai nostri progetti, dalla nostra libertà e dalla nostra iniziativa. Dipende dalla speranza che nutre la nostra vita. E noi sappiamo che la speranza cristiana poggia sulla certezza della paternità di Dio. Egli non ci fa mancare la sua benedizione: ci ama, ci accompagna nelle prove e ci chiede di collaborare attivamente, donando tutto noi stessi al meglio delle nostre possibilità, alla realizzazione del suo disegno di bene e di bellezza. In vari modi, sempre ciascuno di noi è chiamato a lavorare per costruire il bene comune. Questa è una grande occasione per farlo. + Massimo Camisasca Reggio Emilia, 3 aprile 2020  ...
    • Scuole dell’Infanzia Paritarie
      Scuole dell’Infanzia ParitarieScuole dell’Infanzia Paritarie SAN GIUSEPPE, VINCENZO GUIDETTI, SEBASTIANO CORRADI IMPORTANTE COMUNICAZIONE A TUTTE LE FAMIGLIE Buongiorno a tutti, desideriamo comunicare a tutte le famiglie dei nostri bambini che, grazie all’impegno promesso e alla disponibilità espressa dall’Amministrazione Comunale di Scandiano, dalla Regione Emilia Romagna e dal nostro Stato Italiano, siamo oggi nella condizione di dirvi che la scuola non farà nessun addebito alle famiglie per la retta del mese di marzo 2020. Continueremo a far fronte alla situazione di grande emergenza che si è creata. Siamo tuttavia in attesa di dati più certi rispetto ai contributi che arriveranno alla nostra scuola e, pertanto, vi terremo aggiornati in merito alle successive rette. Se continueremo a lavorarci tutti insieme e a supportarci a vicenda, ANDRA’ TUTTO BENE! Scandiano 19 marzo 2020, festa di S. Giuseppe La Direzione...
    • Preghiera del santo Rosario per il Paese
      Preghiera del santo Rosario per il Paese“A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio, insieme con quello della tua santissima Sposa” (Leone XIII) Carissimi Sacerdoti, Diaconi, Religiosi e fedeli della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, accogliendo le indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana, il nostro Vescovo invita tutta la Diocesi ad aderire all’ iniziativa, dandone la massima diffusione tra le famiglie e i fedeli. In questo momento di emergenza sanitaria, la Chiesa italiana promuove un momento di preghiera per tutto il Paese, invitando ogni famiglia, ogni fedele, ogni comunità religiosa a recitare in casa il Rosario (Misteri della luce), simbolicamente uniti alla stessa ora: alle 21 di giovedì 19 marzo, festa di San Giuseppe, Custode della Santa Famiglia. Alle finestre delle case si propone di esporre un piccolo drappo bianco o una candela accesa. Invito inoltre tutti i parroci della Diocesi a compiere un altro gesto significativo: alle ore 21.00 precise, proprio nel momento dell’inizio della preghiera, le campane di tutte le chiese parrocchiali suonino a festa. TV2000 offrirà la possibilità di condividere la preghiera in diretta. Un sussidio per la preghiera del Santo Rosario si può scaricare dal sito della Diocesi Scaricalo da quì Il vescovo Massimo ha deciso di pregare personalmente il Rosario nella Basilica della Ghiara. Il nostro Centro Comunicazioni sociali trasmetterà la preghiera in diretta streaming sui canali che verranno resi noti sul sito della Diocesi. Mons. Alberto Nicelli, Vicario Generale...

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