Testimonianze in occasione della Giornata del Malato

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 1,40-45)
“Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.”

In occasione della Giornata del Malato, domenica 14 febbraio scorso, alcuni operatori sanitari della nostra Pieve hanno condiviso una riflessione partendo dal Vangelo per arrivare alla testimonianza della quotidianità nello svolgimento della loro professione.
Ecco la raccolta di questi preziosi e ricchi contributi!

 

Elena Pighini

“Io non lavoro a stretto contatto con i malati, da diversi anni mi occupo di formazione, e nello specifico della formazione degli infermieri. In questo ambito ho la fortuna di vivere, attraverso gli studenti che seguo nei percorsi di tirocinio, diverse esperienze di vita e di malattia. Ciò che è accaduto nel 2020, con l’arrivo della Pandemia di Covid, ha coinvolto tutti i professionisti della salute e anche chi come me da anni non andava in clinica. All’inizio è stato un trauma, ma anche una importante esperienza che ha contribuito a riaccendere la passione rispetto alla scelta professionale che ho fatto tanti anni fa.
Di questo vangelo mi ha colpito la sequenza di azioni con cui Gesù compie il miracolo: Mosso a compassione; Stesa la mano; Lo toccò; Gli disse
Mosso a compassione che non è COMMOZIONE: l’atto e l’effetto del commuovere, del commuoversi; Nel linguaggio medico s’intende una grave perturbazione delle funzioni di uno o più organi, dovuta a causa esterna spesso di origine traumatica. Emozione. Agitazione interiore. Invece è più COMPASSIONE: sentimento di pietà e di dolore per i mali altrui. COMPATIRE: soffrire insieme.
I sanitari, come siamo identificati oggi, no sono supereroi, come Gesù davanti alla malattia sono mossi a compassione. Non credete che la sofferenza non lasci impassibili chi giorno dopo giorno assiste persone malate. L’empatia, che come formatori insegniamo ai nostri studenti quando iniziano a muovere i primi passi nel percorso che li condurrà ad essere dei professionisti, è uno degli elementi fondamentali della relazione di cura, l’empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura ma senza esserne sopraffatto.
Stese la mano, immagine bellissima, se chiudiamo gli occhi possiamo immaginare come Gesù in una posizione completamente asimmetrica rispetto a quella del lebbroso (Gesù in piedi e il lebbroso in ginocchio) tende il corpo, il braccio e la mano verso quest’uomo. Elimina lo spazio che lo separa dall’uomo sia fisicamente che socialmente. Nello stesso tempo, in unica azione prende le distanze dalla legge di Mosé (citate nella prima lettura) ed elimina le distanze tra lui e il malato. Gesù non lo tiene lontano, ai margini, si avvicina, tende.
Allora mi vengono alla mente diverse situazioni cliniche vissute in prima persona nel periodo di marzo dell’anno scorso dove insieme ad alcuni colleghi ci siamo trovati a dover gestire l’arrivo delle ambulanze in pronto soccorso. Le persone per ordine clinico venivano inviate in ospedale, dopo aver passato anche diversi giorni in isolamento in casa, per paura di contagiare i famigliari. A noi era affidato il compito di accoglierle, seppur con tutti i dispositivi di protezione personale, e introdurli in pronto soccorso. A noi era chiesto di farci vicini, per poco tempo, è vero, ma il tempo sufficiente ad accoglierli.
Lo toccò, Gesù compie un gesto estremo per quel tempo. Tocca un lebbroso. poteva guarirlo con la voce, a distanza, come ha fatto con altri malati invece lo tocca! Il tatto è uno dei cinque sensi e l’unico bidirezionale, io non posso toccare senza essere toccato. Allora mi torna alla mente il discorso del santo Padre Francesco che ho potuto ascoltare di persona in sala Nervi in occasione dell’udienza rivolta agli Infermieri nel 2018…Incontrando il lebbroso che gli chiede di essere sanato, stende la mano e lo tocca (cfr Mt 8,2-3). Non ci deve sfuggire l’importanza di questo semplice gesto: la legge mosaica proibiva di toccare i lebbrosi e vietava loro di avvicinarsi ai luoghi abitati. Gesù però va al cuore della legge, che trova il suo compendio nell’amore del prossimo, e toccando il lebbroso riduce la distanza da lui, perché non sia più separato dalla comunità degli uomini e percepisca, attraverso un semplice gesto, la vicinanza di Dio stesso. Così, la guarigione che Gesù gli dona non è solo fisica, ma raggiunge il cuore, perché il lebbroso non solo è stato guarito ma si è sentito anche amato. Non dimenticatevi della “medicina delle carezze”: è tanto importante! Una carezza, un sorriso, è pieno di significato per il malato. È semplice il gesto, ma lo porta su, si sente accompagnato, sente vicina la guarigione, si sente persona, non un numero. Non dimenticatelo.
Stando con i malati ed esercitando la vostra professione, voi stessi toccate i malati e, più di ogni altro, vi prendete cura del loro corpo. Quando lo fate, ricordate come Gesù toccò il lebbroso: in maniera non distratta, indifferente o infastidita, ma attenta e amorevole, che lo fece sentire rispettato e accudito. Facendo così, il contatto che si stabilisce con i pazienti porta loro come un riverbero della vicinanza di Dio Padre, della sua tenerezza per ognuno dei suoi figli. Proprio la tenerezza: la tenerezza è la “chiave” per capire l’ammalato. Con la durezza non si capisce l’ammalato. La tenerezza è la chiave per capirlo, ed è anche una medicina preziosa per la sua guarigione. E la tenerezza passa dal cuore alle mani, passa attraverso un “toccare” le ferite pieno di rispetto e di amore. DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DELLA FEDERAZIONE DEI COLLEGI INFERMIERI PROFESSIONALI, ASSISTENTI SANITARI, VIGILATRICI D’INFANZIA (IPASVI) Sabato, 3 marzo 2018Gli disse, Gesù parla al lebbroso per guarirlo e fa il miracolo.
Lo guarisce da una esistenza triste e isolata e lo riporta alla vita, alla gioia. Prova anche a dirgli di non fare troppa pubblicità, ma il guarito non riesce a trattenere l’entusiasmo, giustamente pensiamo noi. Non è forse una esperienza entusiasmante? Guarire da una malattia è una gioia infinita!!! Purtroppo però non sempre accade la stessa cosa nei nostri luoghi di cura. A volte la cura non è sufficiente e non si guarisce, a volte le parole che escono dalla nostra bocca sono vorrei guarirti ma non posso, però posso cercare di farti star meglio.
Siamo chiamati in questa direzione a prenderci cura (to care), utilizzando quei talenti che Dio ci ha donato per far si che quell’esperienza di malattia, che è soprattutto un’esperienza di vita, possa essere per la persona e la sua famiglia un qualcosa di significativo ed importante anche alla luce del Mistero di Dio.
Concludendo, Gesù, il figlio di Dio incarnato, entra nella nostra carne. La malattia è l’esperienza di vita più vicina all’incarnazione perché dice del nostro essere sia umani che frammento di Dio. Forse Dio oggi non fa miracoli, ma sprona l’uomo a mettere a servizio della collettività i propri talenti di cui è portatore per essere il suo braccio miracoloso.”

 

Enrica Incerti

“Don Andrea mi ha chiesto nella settimana in cui celebriamo la giornata della vita e degli ammalati di condividere una breve riflessione nata dall’ascolta della Parola di oggi letta alla luce della mia professione di medico.
Nel racconto del Vangelo c’è un uomo ammalato di lebbra che va incontro a Gesù e supplicandolo gli dice “ Se vuoi puoi guarirmi”. E in quell’uomo io ritrovo me stessa con le piaghe della mia debolezza e dei miei limiti e ritrovo gli ammalati che incontro nel mio lavoro quotidiano : deboli, affaticati dalla malattia e dalla sofferenza . E insieme con coraggio e voglia di vita chiediamo a Gesù GUARISCICI.
Gli ammalati sono esigenti e chiedono a noi che per professione abbiamo scelto di prenderci cura di loro se per noi sono importanti , se la loro vita per noi è preziosa come per Gesù lo è quella del lebbroso che gli si avvicina. Ci chiedono la stessa compassione , ci chiedono di lasciarci ferire dalla loro sofferenza , di comprometterci e di non abbandonarli alla solitudine del loro dolore. Ci chiedono quel TOCCARE che è la misericordia di Gesù che è capace di creare una relazione che non abbandona l’altro nella sua malattia. Gesù oggi ci mostra come si può incontrare la sofferenza sapendo che questo incontro ha il prezzo di una perdita : perdita di se stessi per sapersi misurare con la diversità che abita l’ ammalato, nella consapevolezza del proprio limite e della propria finitezza…
La compassione di Gesù non chiede di essere proclamata ; la guarigione, il bene che opera lo allontanano dalla città ma contemporaneamente il bene compiuto da Gesù nel suo gesto , il suo sapere soffrire con l’altro sono in grado di generare una guarigione , una nuova vita che vengono a gran voce annunciate e che a loro volta richiamano intorno a Gesù tanta gente alla ricerca di quel tocco e di quella compassione….
Questo tempo, questi mesi trascorsi nella pandemia ci hanno rivelato quanto è importante anche se impegnativo vivere sulla via di Gesù che ha compassione , tende la mano e tocca. Questa malattia nuova con la quale tutti ci stiamo confrontando mette in luce le nostre paure , le nostre fragilità, le nostre piaghe che corrono il rischio di allontanarci dagli altri. Questi tempi ci interrogano : siamo capaci di andare verso Gesù e come questo uomo chiedergli in ginocchio : GUARISCIMI SIGNORE DALLA LEBBRA DELLA PAURA E DALLA PAURA DELLA LEBBRA!?
Oggi come sempre gli ammalati continuano a chiederci se siamo capaci di quel toccare e di quella compassione . La pandemia ci ha mostrato come sia importante il prendersi cura ,il curare anche quando il guarire non è in nostro potere.
L’esperienza di questi mesi mi ha fatto toccare con mano la fatica di abitare un tempo diverso e la necessità di tornare sempre a quella sorgente : Gesù che si commuove e tocca.
Ho sperimentato con tante persone e non solo con gli operatori sanitari ( penso spesso ad esempio alle commesse dei supermercati nei mesi di marzo e aprile , ai camionisti che viaggiavano senza sosta e senza aree di sosta per portare a tutti il necessario , a tutti coloro che sono rimasti al loro posto fedeli al proprio dovere…) insieme a tutte queste persone ho condiviso quanto sia difficile tenere nelle proprie mani fragili la vita degli altri e allo stesso tempo quanto la compassione sia un amore che genera amore .
Nella mia piccola e imperfetta parte, nel lavoro che svolgo ogni giorno sperimento a mia volta quotidianamente di essere oggetto di cura e guarigione .Sono curata e guarita dagli ammalati che incontro e che mi liberano dalle mie piaghe fatte di impazienza di fretta e a volte di paura e di fastidio, dalle loro famiglie e da tutti coloro che ruotano loro intorno e che mi insegnano la dedizione e la pazienza quotidiane , dalla mia famiglia che sana la mia stanchezza e ricopre con amore le ferite del tempo rubato, dai miei amici che mi sostengono con affetto e con la preghiera e soprattutto come l’uomo lebbroso di questa pagina di Vangelo sono curata dal Signore che sempre si prende cura di noi e che è il solo che davvero ci può guarire.”

 

Claudia Bagni

“Io sono un educatore e un operatore assistenziale e non sono né un infermiere né un medico. Se vogliamo paragonare qualcuno a Dio, direi che loro sono sicuramente le persone più adatte. Lavoro in un centro per disabili e in questi 13 anni di lavoro ho visto tante persone. Da noi ci sono ragazzi che sono nati con una disabilità e altri invece che erano persone dette normali, proprio come tutti noi, ma che nella loro vita lo sono diventate.
Una malattia congenita o rara, un incidente, un infarto .. le motivazioni sono tante. Sono queste le situazioni più difficili da affrontare ma sono anche quelle in cui si riesce a vedere l’intervento di Dio con più facilità. Alcune persone vengono da noi per un periodo e grazie alle cure e alle terapie riescono a tornare a fare una vita il più normale possibile. Grazie all’intervento appunto dei medici e degli infermieri, che riescono davvero a indicare la via giusta per guarire. Per noi non è facile e né immediato guarire, come lo è per Dio. A lui basta dire lo voglio. I nostri dottori devono studiare per trovare una cura ma mi sembra un ottimo compromesso per metterci sulla strada di Dio.
Quando Don Andrea mi ha chiesto di fare questo intervento io mi sono sentita persa. Io di questi miracoli non ne faccio, non curo nessuno. Anzi. Tante volte i ragazzi ( i nostri disabili, malati, ospiti noi li chiamiamo ragazzi) sono la mia cura. Tutti noi abbiamo dei momenti in cui facciamo fatica ad affrontare la nostra vita.. le relazioni difficili, il voler apparire sempre giusti… tutte queste cose si ridimensionano quando penso ai miei ragazzi.
Loro sono più in difficoltà di me ma riescono a essere forza per me, io penso che siano loro la mano di Dio. Loro che nonostante tutti i loro problemi sono sempre pronti a sorriderti, a ringraziarti, a starti vicino. Ed è così che nel vederli non come malati o come ospiti, ma vederli come Marco, Lorena, Francesca, tu capisci che loro hanno bisogno di assistenza perché non riescono a lavarsi da soli, ma in cambio ti danno una sorta di magia che ti cura l’anima, che ti cura da tutte quelle cose che pensi che siano così importanti da non potere vivere senza. Ma non è vero. Quello che conta è proprio la loro parola, o i loro gesti visto che non tutti parlano, che ti curano l’anima. E ogni giorno dico grazie a Dio per avermi fatto incontrare tante persone meravigliose che mi guariscono.
In tutti questi anni, la forza che vedo negli occhi dei miei ragazzi mi ha fatto capire che le cose che veramente contano nella vita sono la gioia di stare con gli altri, il rispetto, la forza della pazienza di aspettare i risultati, il coraggio di provare a cambiare la propria situazione o il coraggio ancora più grande di accettarsi diversi da come si vorrebbe essere.
Visto che io non sono una sanitaria mi sono chiesta spesso cosa potessi fare per risollevare i miei ragazzi. Poi ho pensato che Gesù inizia dal prendersi cura degli ammalati. Sia nel corpo che nello spirito. E in tutti questi anni ho capito che quello che risolleva lo spirito dei miei ragazzi è un po’ di normalità.
La normalità che per noi è scontata ma per loro non lo è. Quindi io sono diventata una professionista nel fare la colazione al bar, nel pranzare fuori, nel fare shopping ai petali. Per noi questi sono riti veramente unici. Sembra quasi magico dire andiamo al bar a prendere un caffè. E lo sembra perché in quel momento anche i miei ragazzi fanno quello che fanno tutti gli altri. Perché anche se vivono in struttura, non sono malati così gravi da avere sempre bisogno di un medico, per fortuna.
Loro hanno bisogno di normalità. Questa normalità fatta di visite dei parenti e di uscite quest’anno ci è stata tolta. In alcuni periodi è stata dura, anche perché i ragazzi non sempre si rendono conto che non si può uscire per una pandemia, non a tutti lo puoi spiegare. Ma il bello di essere comunità è proprio il sostenerci anche in questi momenti, siamo sempre pronti a ridere e scherzare per sdrammatizzare ogni situazione, anche le più difficili. Il bello di essere comunità è proprio questo, c’è sempre qualcuno che riesce a farti venire il sorriso.
La comunità della nostra struttura poi è una comunità allargata. Nel senso che ne fanno parte di solito anche le famiglie dei nostri ragazzi. Le famiglie sono le più colpite dalla disabilità in quanto si devono ridefinire. E ognuna lo fa in modo diverso. Secondo le proprie possibilità. Vorrei però raccontarvi della comunità di Fabrizio. Lui ha sempre avuto in tutti questi 8 anni una famiglia e degli amici molto presenti. Lo venivano a trovare i parenti stretti tutti i giorni, gli amici una volta ogni 15 giorni. Beh questi sono amici non solo con la maiuscola, ma con tutte le lettere maiuscole. La comunità di Fabrizio è diventata un po’ anche la nostra, degli altri operatori e degli altri ragazzi. Loro includono tutti, ridono e scherzano come se ci conoscessimo da una vita. Questo è un sostegno per Fabrizio, per la sua famiglia ma anche per noi operatori. In una comunità non si sa mai chi è a guarire e chi è a curare perché i ruoli si scambiano di continuo.
Io parlando di comunità vorrei ringraziare anche voi di Fellegara. A volte ci incontriamo nelle mie uscite e ne ricordo due in particolare, proprio di quest’ultimo anno di covid. Una volta appena ci avete visto ci avete lasciato il tavolino migliore del bar perché in tutti gli altri c’era il sole, la seconda volta abbiamo scambiato due battute scherzose. Ecco questo per me è creare il regno di Dio. Vuol dire avere persone che fanno gesti normali ma che in quel momento per te sono importanti. Persone che ti VEDONO. Ti vedono davvero, vedono che sei con una persona disabile ma non hanno paura, o imbarazzo più che paura, e ti trattano con normalità. Questa è la vera magia che solo Dio può fare.
Una lezione di normalità io l’ho ricevuta da Giulia, una ragazza giovane che viene da noi ogni tanto per un sollievo alla famiglia, lei dice che viene per farsi i fatti suoi visto che a 30 anni dipende dai genitori per tutto. Bhe Giulia un giorno al bar mentre le stavo mettendo uno dei nostri bellissimi tovaglioli blu ( il mio intento era quello di non sprecarla, i ragazzi devono essere sempre puliti se no cosa pensa la gente quando li vede??? ) Giulia mi ha detto: Claudia è meglio una macchia sulla maglia che il tovagliolo, noi dobbiamo confonderci non distinguerci ancora di più. Io vi giuro che i tovaglioli blu nelle uscite non li metto più.
Quindi, quando San Paolo dice di diventare imitatori di Cristo, io penso che per imitarlo e creare il suo regno, tante volte basti la normalità di un saluto, di una parola o di un sorriso.. che anche con la mascherina quando sorridi con il cuore si vede.”

 

Sara Belvedere

“Buongiorno a tutti, mi chiamo Sara, sono un’infermiera e lavoro nel reparto di Pneumologia dell’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.
Mi è stato chiesto dal don di condividere con voi una piccola riflessione su questo vangelo, dato che questa settimana è stata particolarmente dedicata ai malati e alle persone fragili.
Questo per rendere testimonianza della mia esperienza lavorativa.
Assistere e prendersi cura delle persone che vivono nella sofferenza credo che sia qualcosa di delicato, perchè, proprio perchè essere umani, in condizioni di malattia non è solo il corpo a risentirne, ma c’è tutta una sofferenza dell’anima, di vissuto di dolore che è inevitabile non considerare.
E’ difficile dare voce ad emozioni e sentimenti che si provano lavorando con persone che vivono nella sofferenza. In particolare dallo scorso anno, lavorando in un reparto tutt’ora molto coinvolto nell’emergenza covid 19, è molto piu’ impegnativo, sia a livello fisico che emotivo, perchè da un giorno a un altro la sensazione è stata quella di essere catapultati in un concentrato di sofferenza, di dolore, di solitudine, di paura, tutta insieme ed improvvisamente.
Credo sia importante rivolgere le giuste parole e gesti verso chi soffre, di tutte le malattie, ma anche avere il tempo di metabolizzare ciò che si vive, anche se indirettamente come operatori sanitari, è importante. Quest’emergenza non ci ha dato tanto il tempo di capire all’inizio ciò che stava accadendo , è stato devastante, perchè tantissime persone, giovani e anziani, erano li, si affidavano a noi, che giorno dopo giorno abbiamo imparato sempre di piu’ a ripondere alle loro richieste di aiuto, nonostante inizialmente impreparati.
Leggendo questo passo del vangelo penso che l’incontro tra Gesu’ e il lebbroso sia molto toccante e assolutamente attuale.
Mi sono soffermata a riflettere su diverse parole che mi hanno colpita.
Nel Vangelo si dice che Gesu’ ha COMPASSIONE del lebbroso, ma non in senso negativo, io credo significhi che ha riconosciuto con il cuore la sofferenza del malato, ha accolto il suo dolore.
Questa situazione si può trasferire nella nostra quotidianità, perchè ogni giorno è possibile vivere queste situazioni, ma ciò che è importante è saper aprire il cuore, avere la forza di rapportarsi con il dolore e di stare accanto a chi soffre, per tanti motivi. Sarebbe troppo facile stare in disparte, per paura di essere troppo coinvolti, ma siamo umani e la sofferenza fa parte della vita, anche se a volte è una croce enorme da portare e come si fa a fare finta di niente davanti a chi implora aiuto?
Io credo che prima di aiutare bisogna imparare a fare il sottile passo che lo precede, ovvero ciò che Gesu’ ha fatto, riconoscere chi soffre, non ignorare. Purtroppo l’indifferenza è tanta, ma quando qualcuno è in grado di accogliere il nostro grido di aiuto, in maniera gratuita, è una cosa meravigliosa. Ci fa sentire meno soli in situazioni di sofferenza e la croce diventa piu’ leggera da portare.
Un’altra parola che mi ha portato a riflettere è stata quella del “TOCCO”, perchè Gesu’ tocca il lebbroso, in quell’epoca considerato dalla società una persona assolutamente da evitare, un escluso da tutto e da tutti. Tuttavia Gesu’ non ha paura e lo accoglie, dedicandogli del tempo.
Mi viene da pensare a quanto bisogno avremmo di abbracciare, di riprenderci un po’ i gesti di affetto, da rivolgere anche a chi vive la malattia nel quotidiano. Grazie al mio lavoro, però, ho davvero avuto modo di capire quanto sia significativo il comunicare con empatia con i malati, ho imparato che, anche se il tempo sembra sempre essere poco e ci sono tantissime cose da fare in una giornata lavorativa e sei stanco, una parola di conforto e un sorriso possono fare la differenza. Ho capito quanto sia fondamentale preservare la dignità dei malati, a porsi con delicatezza davanti a chi in poco tempo non può e non riesce, o ci riesce con molta fatica, a compiere gesti che prima facevano parte del quotidiano, come parlare, camminare, muovere le dita, mangiare e bere in autonomia, perchè, per esempio, attaccato a un ventilatore che lo aiuta a respirare.
Spesso la cosa più importante di tutte è dedicare del tempo, perchè lancia un messaggio di positività, ovvero sono qui accanto a te e ti ascolto, in maniera sincera e vera. Credo che dedicare tempo ai malati sia purtroppo una delle battaglie più dure che viviamo al lavoro in questo periodo, perchè si lavora in condizioni diverse, vestiti dalla testa ai piedi, si è piu’ stanchi e i ritmi sono un po’ cambiati.
Tuttavia questo non ci impedisce di dedicare tempo a tutti i tipi di malati, perchè una semplice attività di cura può diventare piu’ significativa se associata al giusto modo di comunicare, se ci si pone in ascolto del malato. Bisogna ammettere che risulta anche molto gratificante sentirsi dire grazie, anche se si è fatta una cosa piccola, in realtà può essere di grande aiuto e un gesto molto significativo.
Il fatto che Gesu’ tenda la mano verso il lebbroso è un gesto meraviglioso. Penso abbia un significato profondo, perchè credo che rappresenti la comunione tra Dio e l’uomo, quest’ultimo con le sue fragilità, con la sua condizione di malattia, che provoca ferite non solo al corpo ma nel cuore e nella mente, che può portare alla solitudine, all’emarginazione, al dolore, porta a un cambiamento della propria vita. Gesu’, però, può rimarginare le ferite, può purificarci, aiutandoci a sorreggere il peso della sofferenza. Penso che la buona notizia sia che questa. Tutti noi possiamo impegnarci a essere un po’ piu’ simili a Gesu’, possiamo tendere la mano a qualcuno, questo ci rende uomini, ovvero la carità. Questo lo si può fare aiutando chi vive la malattia a non convivere nella solitudine per esempio, a non emarginarsi come faceva il lebbroso. Vuol dire stare accanto in qualche modo, tendere la mano a chi sta vivendo gli ultimi giorni della propria vita, a chi è lontano dai propri cari, come sta succedendo in questo periodo, a chi ha mille progetti di vita che ha dovuto mettere da parte perchè malato, ci sono tanti modi di stare accanto. Tuttavia, mi rendo conto che si può anche imparare da chi è in una condizione di fragilità.
Mi fa riflettere la pazienza, il coraggio, la voglia di mettercela tutta per guarire, di sorridere e di scherzare, nonostante tutto, che mi capita di vedere nei pazienti, senza negare che ognuno comunque ha le sue debolezze.
La guarigione non riguarda solo gli ammalati, ma anche chi riesce a tendere loro la mano, perchè riempie il cuore di emozioni profonde e ci apre a una comunicazione autentica con il prossimo.
Ringrazio per questa bella opportunità di condivisione.
Grazie per l’ascolto.”

 

Davide Germini

“Nella prima lettura che la liturgia oggi ci propone, si nota in modo chiaro come ai tempi di Mosè un malato di lebbra venisse considerato “impuro” nonché peccatore per tutta la durata della sua malattia. Questo mi fa riflettere innanzitutto se, al di là della lebbra, qualcosa è cambiato nel corso della storia. Purtroppo, ancora oggi, certe patologie e certi ammalati sono, come si dice, “stigmatizzati”, cioè sono visti come “diversi”, come qualcosa di lontano da noi e da cui stare alla larga. Mi vengono in mente alcune persone che ho conosciuto nella mia esperienza lavorativa, soprattutto pazienti che afferiscono ai servizi di salute mentale o con disabilità di diverso tipo. Spesso c’è chi prova quasi un senso di vergogna ad avere a che fare con loro, chi vive questo incontro con difficoltà oppure stranezza. Credo che però la maggior parte di queste reazioni siano dettate dalla non-conoscenza e dalla mancanza di consapevolezza rispetto a quella situazione/patologia.
Una volta che si entra in relazione con queste persone, infatti, si possono toccare con mano delle qualità, che magari in un primo momento ci sembrano “nascoste” dalla patologia o dalla condizione ma, se si cerca di lasciarsi trasportare da questo incontro, si esce sicuramente arricchiti.
Anche il lebbroso che compare nel Vangelo è considerato “impuro” e si conosce bene la loro condizione dell’epoca. Isolamento, solitudine, diversità, fragilità, percepire una chiusura dell’altro che può portare ad un senso di frustrazione. Frustrazione che già è presente per la malattia stessa e che non può far altro che essere accresciuta esponenzialmente e portare ancora di più ad isolarsi e a non aver fiducia in chi incontriamo. Avere la lebbra era come se ti cambiasse la prospettiva e ti facesse vedere le cose diversamente, partendo dal tuo malessere.
Attualmente, da alcuni mesi, lavoro in un reparto di isolamento per persone positive al Covid-19 con sintomi lievi. In questo contesto lavorativo devo ammettere che la solitudine che viene dettata dall’isolamento e dalla quarantena è spesso tangibile. Si sente il peso del non potere vedere i familiari, del non poter fare due chiacchiere. Sembra quasi come se si rimanesse fermi, in pausa, da soli mentre fuori dalla camera il mondo va avanti.
Gesù, come spesso accade, riesce a darci una visione differente della situazione. E lo fa con dei gesti in apparenza semplici, ma pieni di grande significato: “Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse”.
L’avere compassione: la capacità di partecipare del dolore altrui, facendolo proprio e condividendolo. Potremmo quasi affermare che Gesù è l’essenza stessa della compassione intesa in questa ottica. Tante volte nel corso dei Vangeli leggiamo episodi di compassione e solidarietà verso qualcuno più sfortunato o in condizione di disagio. Questo atteggiamento del “patire con” apre la parte più profonda di noi stessi e non solo la nostra mente, ci dà maggiore consapevolezza di chi ci circonda, ci fa riconoscere l’altro non come la sua malattia ma come persona, con delle necessità ma anche con punti di forza. Ci porta dritti al suo essere. E’ un sancire un rapporto, una relazione di cura-che cura. E’ un voler puntare alla qualità della relazione.
Il tendere la mano: voler farsi prossimo. Cercare di instaurare una relazione, cercare di trasmettere qualcosa all’altro. E’ segno di voler esserci, che tenta di aprire le porte alla fiducia e all’accoglienza, quella autentica, che va oltre.
Il tocco: segno forte di presenza, di vicinanza, di affetto. Ma è un segno forte anche per noi che “tocchiamo”, ci rende consapevoli che siamo lì per quella persona che abbiamo di fronte, che l’accogliamo così com’è, senza vincoli, pregiudizi oppure pretese. Il gesto del toccare un lebbroso che compie Gesù va contro i canoni dell’epoca, va oltre la malattia e dritto alla persona.
Dire: quante volte capita, proprio a lavoro, di non saper trovare le parole giuste per comunicare notizie o cambiamenti che sappiamo difficili? Quante volte mi accorgo che il peso delle parole che dico, anche quelle che mi sembrano più banali e insignificanti, possono essere vissute da chi le ascolta come “parole di grazia”, di sollievo oppure pesanti, inaspettate, che ti fanno sbattere la testa, che non le vuoi sentire?
Aggiungo anche la dimensione importante e fondamentale dell’ascolto, da collocare prima di tutte queste. Senza un ascolto vero, attivo, partecipato, le fasi successive sarebbero ridotte o addirittura senza significato. E Gesù ascolta, prima di parlare. Ascolta il grido e le preghiere di questo lebbroso che chissà da quanto tempo gli correva dietro. E’ questo il primissimo passo dell’accoglienza. E mi chiedo, nel mio essere infermiere, sono in grado di ascoltare come si deve? Di ascoltare davvero, a fondo?
Al termine della seconda lettura però, san Paolo ci esorta: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo!” Ecco, credo che diventi fondamentale “imitare Cristo” in questi gesti che vanno oltre. Ma con l’attenzione che non diventino una routine fine a se stessa ma cerchino, in ogni contesto, di rispettare e valorizzare chi si ha di fronte. A partire da quando la situazione è sotto controllo, quando si fa fatica a trovare le parole fino a quando non c’è più niente da fare.
A volte accade che al termine di una giornata lavorativa ripenso un po’ a come sia andata. Mi viene da chiedermi spesso se è stata una buona giornata. Se avessi potuto usare parole diverse per dire certe cose, dedicare più tempo a qualche persona che ne avrebbe avuto forse più bisogno. Chiedo al Signore che possa darmi la capacità di voler ricercare sempre, ogni giorno, sul campo come nella vita, una relazione vera, autentica, personalizzata e focalizzata sulla persona e sui suoi bisogni.
E chiedo ancora al Signore di non mancare di umanità, nel mio lavoro ma anche nella mia quotidianità, ma di riuscire ad accogliere per davvero chi mi sta di fronte, di dedicare il tempo necessario al dialogo senza che la frenesia delle cose da fare vada a penalizzare queste relazioni preziose, ad avere la capacità di mettermi nei panni dell’altro, crescendo ogni giorno con pazienza, passione e professionalità.”

 

Paola Lusetti

“Buongiorno, sono Paola e sono un medico di famiglia. Mi è stato chiesto di condividere con voi alcune riflessioni,ricollegandole alle letture di oggi, su cio’che abbiamo vissuto nel nostro lavoro,durante questa pandemia.All’inizio di tutto, circa 1 anno fa’,noi medici di base, avevamo forse un po’ sotto valutato cio’ che stava per succedere.Pensavamo fosse un virus, nuovo si e forse un po’ piu’ cattivo del solito, ma che avrebbe fatto piu’ o meno il decorso che fanno ogni anno, i virus influenzali.
Invece, ci siamo accorti ben presto, che stava succedendo qualcosa di molto diverso. Nessuno di noi, avrebbe potuto immaginare, che saremmo capitati dentro ad un simile scenario. Qualcosa di invisibile e potente, come solo i virus sanno essere, stava cambiando la vita del mondo. La mattina, arrivando in ambulatorio, ci chiedevamo: Ma ce la faremo a contenerlo ? Quello che stiamo facendo servira’?
Abbiamo visto i nostri colleghi ospedalieri e gli infermieri stremati dai turni e dalla tensione.
Abbiamo visto le famiglie con i bambini piccoli,chiuse in casa in spazi ristretti. Abbiamo visto gli anziani, quelli che andavamo a visitare a casa una volta la settimana, morire da soli in un letto di ospedale. Ci sembrava, anche se è difficile ammetterlo, di non farcela…
E’ molto difficile dominare qualcosa che non vedi, sembrava di essere davanti a qualcosa di molto piu’ grande di noi. E cosi’ in effetti è stato..
Ci è venuto addosso un senso di impotenza, a cui non eravamo abituati. Una sana impotenza…
Noi medici, dopo questa epidemia, dobbiamo dire la verita’ ai nostri pazienti.
Non siamo noi i salvatori del mondo, dei supereroi, come qualcuno spesso crede, che salvano l’umanità dal dolore e dalla morte sempre e comunque. Questo ci lusinga, ma luccica di falsità.La medicina, la scienza, la tecnologia, non guariscono sempre e non si può allungare la vita oltre misura.
Se vogliamo essere veramente sinceri, dobbiamo essere come Giovanni il Battista e dire: Non sono io che ti salvo, ma devi cercare Lui.Il lebbroso del Vangelo supplica Gesù, perchè Lui lo possa guarire.
Noi possiamo solo, come il buon samaritano, ungere con olio e balsamo le ferite e i dolori dell’uomo e dell’umanità. Prima di questa pandemia, tante, troppe persone, si rivolgevano a noi per avere una soluzione pronta, sicura, definitiva alla sofferenza. Spinti dai progressi della scienza, si è cominciato a pensare che si poteva risolvere quasi tutto, a parte qualche malattia veramente grave..
La pandemia, ci ha riportato davanti agli occhi molto chiaramente, l’impotenza dell’uomo davanti al male.
Questa consapevolezza ci fa bene. Ci pone nella condizione di figli, che hanno bisogno di un Padre.
Al lebbroso, solo, impuro, cacciato fuori dall’accampamento, non resta piu’ niente, che non sia supplicare Gesù a gran voce che passa di lì.
Molte persone, in questo difficile periodo, sono state poste “fuori dall’accampamento”. Isolate in casa propria in quarantena o da sole in ospedale. È lì, fuori dall’accampamento, che la compassione del Signore ci può raggiungere e salvare. Chiediamo allora, che questa luce dello Spirito, che ci è stata donata in questo periodo di grande sofferenza, continui a guidarci e ad illuminare gli eventi della nostra vita e del mondo intero, perchè possiamo riconoscere il Signore come nostro unico Padre e Salvatore.

 

Martina Fiaccadori

“Ciao a tutti
Io sono Martina, nella vita sono una infermiera e oggi mi è stato chiesto di raccontarvi un po’ la mia esperienza lavorativa alla luce del Vangelo di oggi. Sono infermiera da 12 anni e principalmente ho accompagnato in questi anni pazienti in Cure Palliative quindi affetti da patologie in fase molto avanzata di malattia.
Nel raccontarvi di me mi piace partire proprio dalla immagine che viene descritta oggi dal Vangelo: da una parte il lebbroso che si inginocchia e che tocca terra, dall’altra quella di Gesù che si abbassa, si china verso di lui e gli tende la mano. Mi colpisce questa immagine perché mi ricorda quanto io veda nelle realtà: la malattia purtroppo è una situazione che mette in ginocchio, mostra tutte le fragilità umane nelle persone che si trovano a fare i conti con i propri limiti ma anche nelle persone che si trovano a prendersi cura degli ammalati. Quante volte i malati mi hanno raccontato del momento della diagnosi utilizzando termini come “è scoppiata una bomba”, “è stato un fulmine a ciel sereno” oppure evidenziano quanto la vita, le priorità, i bisogni cambino quando compare una malattia. Allo stesso modo anche le famiglie che si trovano a fare i conti con un malato in casa parlano di vere e proprie rivoluzioni che compromettono la vita e i ruoli di tutti coloro che si trovano a stare accanto al malato.
Cosi come ai tempi di Gesù i lebbrosi erano temuti e tenuti a distanza, così oggi l’esperienza di malattia rischia di diventare fonte di solitudine ed abbandono. C’è in primis la solitudine del malato che fatica a condividere le sue emozioni, le sue paure e i suoi dubbi ma c’è anche la fatica di molte famiglie che vivono con mano la cronicità e raccontano storie di abbandono, solitudine e fragilità.
Mi colpisce come nel rapportarci con la malattia ciò che emerge è tutta la nostra umanità: se noi seguissimo il nostro istinto umano, infatti, davanti a qualcosa di brutto, difficile e spaventoso scapperemmo a gambe levate! Quando ero in hospice e parlavamo di comunicazione con il malato utilizzavamo una immagine secondo me molto bella che era questa: in alcuni momenti quando comunichiamo con il malato dobbiamo avere la capacità di “stare sulla sedia che scotta”. Quando le parole si fanno difficili, quando la morte diventa argomento di discussione, quando la rabbia, la paura e la sofferenza richiedono di essere ascoltate la tentazione è quella di ricorrere a facili rassicurazioni, frasi fatte e cambi di argomento che poco accolgono il dolore di chi abbiamo davanti.
Nel Vangelo di oggi Gesù fa un gesto rivoluzionario già 2000 anni fa e rivoluzionario anche oggi: Gesù di avvicina e tocca il malato! Avvicinando il lebbroso Gesù tocca un impuro, va oltre la regola di un tempo che era quella di tenersi a distanza da questi malati.
Papa Francesco nel 2015 ha detto una frase molto bella: “non si può fare il bene senza avvicinarsi” che per me come infermiera si traduce nel “non puoi fare bene il tuo lavoro senza starci nella relazione con il paziente, senza vedere davvero la persona che ti sta davanti”. Gesù avrebbe potuto dirgli da lontano “si guarito!” e invece no, si è avvicinato e lo ha toccato. Gesù si avvicina ma soprattutto si lascia avvicinare, lo tocca e gli parla. Gesù vede il lebbroso, lo vede col cuore, entra a contatto con la sofferenza di quell’uomo, esprime la sua compassione e si lascia coinvolgere dal suo grido e dalla sua richiesta di aiuto.
Guardando e toccando il lebbroso Gesù restituisce quell’uomo alla sua umanità, gli riconosce dignità innanzitutto come persona. Lo avvicina andando oltre alla sua malattia e alla sua sofferenza.
Il suo toccare il lebbroso è segno del suo coinvolgimento. Gesù mette in opera lo sguardo di bene che Dio ha su ciascuno di noi e che va al di là delle nostre fragilità umane. Proprio lì, nel punto più estremo della fatica umana Gesù entra e lo fa sconvolgendo la vita del lebbroso. Lo guarda, lo ama e lo guarisce. Quando leggevo queste parole nel Vangelo mi sono ricordata che c’è un grande rischio che corriamo noi operatori sanitari ovvero quello di perdere di vista la persona che stiamo curando: quando la nostra preoccupazione diventa che cosa bisogna curare invece di chi stiamo curando guardiamo la malattia e non più la persona e il nostro agire diventa meno fecondo.
Per concludere nel preparare questa testimonianza mi è stato chiesto quale è la buona notizia che leggo in questo Vangelo e come questo si colleghi con la mia esperienza lavorativa. La buona notizia che io vedo nelle parole di Gesù che si avvicina al lebbroso si racchiude nella parola SPERANZA. In un modo o nell’altro, in hospice o sul territorio, ho sempre lavorato con malati in fase avanzata di malattia, inseriti in un percorso di cure palliative e quindi paradossalmente l’immaginario di questa fase di malattia porta ad immaginare una completa assenza di speranza. Quale speranza è possibile se non posso più guarire? A fronte di una diagnosi drammaticamente infausta quale scenario se non la disperazione?
E invece quello che ho sperimentato in questi anni è che la speranza, come uno spiraglio di luce che si insinua in una fessura, trova spazio anche nei momenti più bui e difficili.
In hospice soprattutto ho visto come la speranza si mantenga valorizzando i piccoli passi, mantenendo aperte le finestre quando le porte si chiudono una dopo l’altra. Cosi in questi anni ho visto spegnersi la speranza della guarigione e accendersi la speranza della libertà del dolore, la speranza di poter vivere abbastanza da conoscere il proprio nipotino o vedere sposare la propria figlia, la speranza di poter tornare a casa e morire nel proprio letto invece che in un ospedale e tanti altri piccoli semi che nascono anche quando tutto sembra perduto.
Per concludere volevo lasciarvi una testimonianza di una paziente che ancora oggi porto nel cuore e che secondo me rappresenta davvero la Speranza: ferma al letto, consapevole dell’avanzamento della propria malattia ella parlava della propria morte aspettandola non come LA fine ma come UN fine verso qualcosa di più grande dopo.”

 

Annalisa Talami

“Il Vangelo di questa domenica in poche semplici frasi, lineari, descrive una scena che in realtà al tempo di Gesù era tutt’altro che scontata. Il protagonista è un lebbroso, proprio colui che attendendosi alla legge dei Giudei doveva essere segregato agli estremi della comunità, escluso, in quanto impuro, castigato da Dio con la lebbra come conseguenza dei propri peccati. Una malattia che non soltanto deturpa il corpo e la salute, ma che comporta una esclusione completa dalla convivenza con gli altri. E’ un personaggio anonimo che con tutto il coraggio e la forza rimasti fa il gesto disperato di rivolgersi a Gesù, con la speranza che almeno lui non lo cacci orripilato dal suo corpo, devastato dalle piaghe della malattia. Forse più che dalla fede, il lebbroso si lascia guidare dall’audacia: supera la paura e cerca aiuto, consapevole di non potercela più fare da solo.
E a dire il vero, il lebbroso si rivolge a Gesù domandandogli non di concedergli la guarigione dalla malattia, bensì è un uomo alla ricerca della purificazione del proprio corpo. Ha perso tutto della sua vita e con disperazione cerca almeno un riavvicinamento a Dio.
“Se lo vuoi”: Gesù immediatamente raccoglie la supplica dell’uomo che sta inginocchiato davanti a lui. Innanzitutto si ferma a guardarlo e ad ascoltarlo, senza cacciarlo, senza disgustarlo e instaura quindi con lui una relazione. Sgorga in Gesù il senso della compassione: si lascia coinvolgere e condivide la sofferenza assieme al lebbroso. Condivide il patimento, lo porta assieme a lui, rendendogli il carico meno pesante.
Gesù non si limita a rispondere a parole: si muove anche fisicamente verso il lebbroso, si avvicina e tende la mano verso di lui. Come Gesù è stato toccato nell’animo dal lebbroso, così in modo reciproco cerca un contatto con quell’uomo, che ormai da tanto tempo soffriva la solitudine dell’abbandono. È un gesto che si scontra con le regole, che avrebbe reso Gesù a sua volta impuro, contagiato. Questa carezza, che viene prima delle parole, sembra voler scardinare la Legge per cui per potersi avvicinare a Dio, per poter aver accesso al tempio, bisognava essere purificati. Qui, il lebbroso si avvicina a Dio e viene purificato. Riprendendo la richiesta condizionale del lebbroso, Gesù con piena convinzione risponde che sì, lo vuole! Gli assicura senza titubanze che gli importa di lui, dei suoi bisogni e gli ridona una vita.
Subito dopo, però, veniamo di nuovo riportati nel contesto di quei tempi e Gesù con tono che appare serio e minaccioso si raccomanda di non raccontare l’accaduto, ma di recarsi al tempio: era infatti compito dei sacerdoti ratificare le norme da applicare nei confronti di un lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione. Forse la serietà che appare trasparire dalle parole di Gesù nasconde rabbia e delusione per la situazione di schiavitù ed emarginazione per chi soffriva nel corpo per quella malattia, portando i malati a dubitare dell’amore di Dio.
Quell’uomo, però, pieno di tutta la vita appena restituita, non si trattiene dal raccontare con felicità la Parola di novità che ha ricevuto. Disobbedisce a Gesù, che si ritrova quasi paradossalmente nella stessa condizione del lebbroso, al suo posto, costretto cioè a non poter più entrare in città, escluso, certo non per ragioni mediche, ma per non essere sommerso dalle richieste di aiuto corporale. Questo, però, non riesce a fermare il circolo di vita che è iniziato. Tutti lo cercano, vanno verso di lui, creando relazioni che amplificano la forza dell’amore di Dio.
L’incontro con le persone che hanno una malattia è una circostanza, purtroppo, non insolita: in famiglia, tra i conoscenti, ogni tanto qualcuno deve affrontare una situazione difficile.
Per alcuni questo incontro è quotidiano, parte della propria vita lavorativa, e le persone coinvolte sono sconosciuti, anonimi, proprio come il lebbroso del Vangelo di oggi. Persone che da un giorno all’altro si sentono dare un nome al loro male, che fa paura, che getta nella disperazione. E al male fisico, si associa subito un’altra immensa sofferenza, che il più delle volte è più ingestibile e profonda, conseguente alla sensazione di perdere tutto quello che negli anni si è costruito. E se è tanto impegnativo ricevere una diagnosi, non è da meno trovarsi dall’altra parte. Mi hanno insegnato che non si può arrivare impreparati a questo momento di comunicazione della malattia, da cui ha inevitabilmente inizio una relazione. Bisogna stare lì, anche quando avresti voglia di scappare lontano. Ed è forse anche per questo che il lavoro del medico è, per così dire, quasi un privilegio: si incontrano persone sconosciute, che poi hanno un nome, e che poi sono anche mamme, papà, fratelli, con le loro vite da raccontare.. e da ascoltare. Quando in ospedale entra un nuovo paziente, nel reparto dove lavoro, tra le cose quasi scontate è che dovrà rimanere ricoverato per tante e lunghe settimane, spesso mesi. In questo momento di restrizioni sociali, poi, la degenza si trasforma quasi in una reclusione: oltre ai medici e agli infermieri, i pazienti non possono vedere nessuno, perché non si può, ma soprattutto perché, come ben presto si rendono conto, stare insieme alle persone esterne rappresenta per loro così indifesi un pericolo. Allora ci ritroviamo a fare un giro visite imprevedibile: si entra nella stanza, ma non si può sapere se si riuscirà a svignarsela presto. Per questo è difficile anche stare dall’altra parte, o meglio, è difficile se si vuole stare dall’altra parte. Si deve imparare piano piano a stare lì, fermarsi, guardare la persona e mettersi accanto a lei, che racconta della sua malattia fisica e che giorno dopo giorno inizia anche ad affidarti il suo patimento più intimo e profondo. Per questo, penso, dentro al nostro reparto i pazienti hanno quasi tutti dopo qualche giorno già un soprannome: la Robbi, Enri, la Sabri, Willi.
Ammetto che quando capita di dover entrare nella stanza di qualcuno che chiede del medico, spero spesso di non entrare da sola, soprattutto quando i pazienti sono giovani. Chissà adesso cosa mi chiede, penso. Sarò capace di rispondere? A cosa potrò mai essergli utile? Ecco, adesso mi inizia a fare tutte quelle domande scomode, che hanno risposte difficilissime, che forse non gli dirò mai per non farlo soffrire. Poi ci si accorge che l’unica cosa di cui forse aveva bisogno era di qualcuno a cui chiedere una sciocchezza, quasi come scusa per fare qualche chiacchiera insieme. E l’unica cosa che sta chiedendo è quindi un orecchio e un cuore pronti ad accogliere i suoi pensieri. Alla fine della visita, in modo automatico e sistematico mi viene da rispondere: ma figurati, anzi, grazie a te! Grazie per avermi permesso di entrare nella tua preoccupazione, nella tua felicità per un bel traguardo, nella tua fatica nel gestire una complicazione in più.
E uscendo dalla stanza, un altro automatismo che mi viene è quello di porgere una carezza, cercando di far trasparire dagli occhi un sorriso nascosto dalla mascherina. Spesso si è in difficoltà a parlare di guarigione, di risoluzione e si parla più che altro di controllare la malattia. E con quella carezza sul volto si prova a far capire che sicuramente si sta facendo di tutto per curare il male, ma che si è lì anche per lenire la sofferenza dell’animo, offrendo qualche medicina relazionale per rendere più leggera la pesantezza della malattia.
“E se hai bisogno per qualsiasi cosa, sai dove trovarci”. Si chiude la porta, come si chiuderebbe la porta della stanza della mamma e del papà o di tuo fratello in casa propria.
Gesù la fa facile comunque.. sì, lo voglio! Sii purificato, sii sanato! Se fosse così semplice.
Gesù, perché ci affidi la sofferenza di questa persona? Perché sta andando tutto male? Perché sembra inutile quello che stiamo facendo? Noi non siamo capaci di miracoli che guariscono.
Però, forse, quello che ci viene chiesto e di cui possiamo essere capaci è spenderci in gesti di amore, mettercela tutta per restituire un po’ di umanità alla persona che si sente abbandonata e privata del valore della sua esistenza.
Alcune volte va a finire male nel nostro reparto, come anche nella vita di tutti i giorni. Pure in modo inaspettato. Allora ancor di più vale la pena non pianificare miracoli, quanto soprattutto piccoli gesti quotidiani per contribuire e amplificare il circolo di amore che Gesù con la sua vita ha cercato di innescare.
Nella lettera per la Quaresima che papa Francesco ha indirizzato alla chiesa qualche anno fa si leggevano queste parole, con cui concludo: “Vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni gesto di coinvolgimento nella situazione dell’altro è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli. E se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità?”

 

Silvia Sghedoni

“Silvia, 36 anni, medico al servizio di Riabilitazione presso il Santa Maria.
Credo che i Don abbiano avuto una buonissima idea nel chiedere ai laici di dare il proprio contributo come testimoni , perché non corriamo il rischio di andare in chiesta “ a fare teorie” , ma perché ci impegniamo perché la vita e la fede restino unite.
Insieme a mio marito Stefano, apparteniamo alla fraternità dell’Ordine Francescano secolare ( OFS) , e per noi francescani secolari, l’incontro di San Francesco con il lebbroso ha un valore grandissimo, perché sappiamo che è quello l’Incontro che genera in lui la conversione, sappiamo che è un segno determinante nel suo cammino.
Ringrazio quindi i Don che durante questa settimana mi hanno affidato l’impegno di preparare un mio contributo, perché per onorarlo al meglio ho avuto la possibilità di pregare, nella preghiera familiare, questo vangelo di Marco in cui l’incontro con il lebbroso si realizza con Gesù ( in fin dei conti, sulle orme di Frannceso, è poi Gesù che noi vogliamo seguire)
Cosa ti colpisce di questo vangelo?
Quello che mi colpisce di questo Vangelo, è la impossibilità di potere tenere per se la gioia che il Signore ci ha procurato nella vita, anche quando è Gesù stesso a chiederlo, non è possibile obbedirgli. Quando si riconosce l’opera di Dio nella propria vita , c’è un irresistibile bisogno di raccontarlo a tutti.
Quale buona notizia ci leggi?
Io leggo almeno 3 buone notizie in questo Vangelo ( e certamente ce ne sono altre che mi sono sfuggite)
La prima buona notizia è che Gesù non scappa. Di fronte ad una condizione di estremo disordine, bruttezza, scompostezza in cui ci possiamo trovare ( quel che è rappresentato dal Lebbroso) Gesù non si tira indietro. Rischia la vita per incontrarci proprio nella condizione in cui siamo ( anche se fragili, malati) , Teniamo presente che la lebbra ( a cui per fortuna noi non siamo più abituati) è una malattia estremamente contagiosa, quindi Gesù nell’infrangere la norma igienica che imponeva un giusto distanziamento, sa di mettere a rischio la propria vita.
La seconda buona notizia è che anche quando ci troviamo in condizioni di assoluta disperazione , disagio ( come il lebbroso) abbiamo la possibilità di fare , di cuore, delle preghiere molto molto potenti. Preghiere brevi, ma che dicono in modo sincero quello che ci sta a cuore.
La terza notizia buona è che Gesù non resiste di fronte a tanta sincerità. Una preghiera semplice, fatta di verità e con il cuore, in totate fiducia e affidamento al Signore, è potentissima. Di fronte a tanta fiducia, il Signore agisce, opera nella vita di chi chiede con preghiera di cuore.
Quali esperienze ti ricorda? Hai un racconto da condividere?
Per me oggi, incontrare la lebbra significa incontrare qualcosa che, come la lebbra , mi fa paura, mi farebbe scappare, mi farebbe evitare l’incontro, Questo qualcosa per me, ad oggi, è la morte. La morte è per me, come la lebbra.
Vi racconto allora un piccolo episodio in cui, la morte ( che io temo, come la lebbra), l’ho incontrata. E ho avuto la assoluta certezza di essere stata, tramite la Provvidenza, assolutamente accompagnata da Signore.
Per me che faccio il medico della riabilitazione, è una assoluta rarità accompagnare qualcuno alla morte, eppure in questo anno mi è successo.
Mi è accaduto di accompagnare un paziente speciale alla morte, è morto durante il mio turno di guardia pomeridiana. Ho avuto la Grazia di potere accompagnare lui all’incontro con Sorella Morte. La specialità di questo momento è derivata dal fatto che di solito, quando si fa il turno pomeridiano, ci sono sempre molti ammalti da visitare, il telefono che tengo in tasca suona spesso. Ecco, quel pomeriggio abbiamo avuto al Grazia del tempo: il telefono non è suonato per tutto il pomeriggio, e io ho potuto vegliare con la moglie il marito morente, siamo state insieme sulla soglia del Paradiso. Non è frequente per un medico ( che è proprio il medico di turno) avere il tempo per potere stare lungamente con gli ammalati. La seconda cosa che mi è successa è che, per trovare lo spazio in cui stare nella stanza con la moglie ed il marito, mi ero infilata come potevo in un angolino, e solo quando i segni della morte erano ormai evidenti, mi sono accorta che la posizione in cui sostavo da lungo tempo per assisterli era IN GINOCCHIO. Quasi che , incosciamente, avessi riconosciuto la Sacralità del momento che ci trovavamo a celebrare.
Cosa ritrovi della tua esperienza lavorativa? Quali gesti di Gesù sono attuali nel tuo lavoro?
I gesti di Gesù che come sanitari rendiamo concreti e a cui ci ispiriamo sono i 4 gesti elencati nel vangelo:
“Ebbe compassione” la vicinanza ai pazienti, la loro comprensione;
“tese la mano “ la vicinanza verso i pazienti non è solo un fatto di testa o spirituale , è una vicinanza fisica . Il lebbroso era in ginocchio a supplicare, e Gesù tendendogli la mano lo invita e rialzarsi da terra, la mano di Gesù solleva, ridona dignità.
“lo toccò” il tocco, il modo in cui si esegue la visita, il tocco gentile, la vicinanza fisica che è necessaria
“ gli disse” , la parola ,il dialogo, lo spazio necessario alla comunicazione, all’ascolto, alle spiegazioni.
Concludo facendo insieme a voi una preghiera per tutti gli ammalati, per tutti i medici, il personale sanitario perché in tutte le condizioni, anche le più difficili, disperate, disgraziate abbiano la certezza di non essere mai soli.

 

Preghiera per la XXIX Giornata Mondiale del Malato
«Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8)
La relazione interpersonale di fiducia quale fondamento
della cura olistica del malato
11 febbraio 2021

Padre santo, noi siamo tuoi figli e tutti fratelli.
Conosciamo il tuo amore per ciascuno di noi
e per tutta l’umanità.
Aiutaci a rimanere nella tua luce
per crescere nell’amore vicendevole,
e a farci prossimi di chi soffre nel corpo e nello spirito.
Gesù figlio amato, vero uomo e vero Dio,
Tu sei il nostro unico Maestro.
Insegnaci a camminare nella speranza.
Donaci anche nella malattia di imparare da Te
ad accogliere le fragilità della vita.
Concedi pace alle nostre paure
e conforto alle nostre sofferenze.
Spirito consolatore,
i tuoi frutti sono pace, mitezza e benevolenza.
Dona sollievo all’umanità
afflitta dalla pandemia e da ogni malattia.
Cura con il Tuo amore le relazioni ferite,
donaci il perdono reciproco, converti i nostri cuori
affinché sappiamo prenderci cura gli uni degli altri.
Maria, testimone della speranza presso la croce,
prega per noi.

 

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