Voci e pensieri per condividere questi giorni

LUCIANO MANICARDI, priore di Bose: Fare i conti con la fragilità che ci costituisce.

Hai scritto un testo sulla fragilità dove già nelle prime pagine si viene invitati a diffidare dalla retorica o dall’esaltazione della fragilità. Eppure molta tradizione cristiana si è poggiata a lungo su questo…
Mai come oggi, in questi tempi di pandemia, possiamo cogliere la dimensione onnipervasiva della fragilità. Semplicemente, essa è costitutiva della condizione umana e abita ogni realizzazione umana, abita la natura come la cultura, riguarda la salute come le condizioni economiche, il lavoro e le imprese, le relazioni interpersonali, sociali e politiche, riguarda la natura e la cultura. Tutto può spezzarsi, a seguito di un lungo processo di erosione, oppure improvvisamente, come l’epidemia di coronavirus ci mostra. Al tempo stesso, non mi pare sensato scrivere elogi della fragilità proprio perché essa è una realtà di fatto, è già lì, mentre è la fortezza, la fortitudo, una virtù che va costruita giorno dopo giorno. E va costruita proprio partendo dall’assunzione della fragilità.

La fragilità ci riguarda, ne siamo impastati. Eppure oggi, anche a livello personale, è difficile fare i conti con essa.
Noi tendiamo a rimuoverla e a dimenticarla anzitutto per motivi culturali, in quanto la fragilità contraddice l’immagine di forza, potenza, successo, “infrangibilità” che deve contraddistinguere una vita umanamente riuscita secondi i parametri mondani correnti. Ma anche psicologicamente la fragilità è temuta e spesso rimossa perché il toccarla, il prenderne atto, produce una sofferenza troppo grande e costituisce una ferita narcisistica. Il prendere atto della concreta fragilità che ci abita ci costringe a rinunciare ai sogni di onnipotenza in cui spesso prolunghiamo il nostro narcisismo infantile. E appunto, una delle lezioni che l’epidemia ci sta insegnando è quella della nostra non-onnipotenza.Ci sta insegnando la lezione dell’imponderabile, dell’imprevedibile e dunque ci invita all’umiltà della conoscenza. Una conoscenza adeguata deve mettere in conto l’imprevedibile. Per dirla con Edgar Morin, maestro del pensiero della complessità ampiamente ripreso nella Laudato si’ di papa Francesco, “la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze”.

Tu scrivi che la fragilità resta il luogo di giudizio della nostra pratica di umanità.  E’ un appello, una domanda, che mette in gioco la cura e la  responsabilità. Tu sostieni l’urgenza di un’“etica della fragilità”. Che dovrebbe strutturarsi in che modo?
L’etica della fragilità si radica nell’empatia. In quel movimento di immedesimazione e rispecchiamento che ci porta a sentire come nostra la sofferenza o la fragilità dell’altro. Gli atteggiamenti richiesti da un’etica della fragilità sono poi almeno questi due: da un lato, il riconoscimento della fragilità che ci abita che ci consente di accogliere anche la fragilità che abita negli altri;dall’altro, la cura delle persone ferite dalle fratture che la fragilità provoca. Questo il potenziale umanizzante insito nella fragilità.

Fai un esempio..
Di fronte allo straniero, al migrante che, fuggendo da storie di sofferenza e disumanità, di povertà e di guerra, giunge nelle nostre terre ignorandone cultura, lingua, usi, ed essendo diverso per costumi e religione, o si entra in un dinamismo virtuoso di empatia per cui “sento” che la sua stranierità, con le fragilità connesse, è anche la mia e abita in me, e allora non sono spinto a odiare in lui ciò che vedo in me, o altrimenti il rischio è che la fragilità dell’altro non dia origine a nessuna risposta etica ma a risposte sadiche, violente, disumane.

Lo sguardo è decisivo. Il rischio dell’uomo di sempre è di togliere il volto, di cancellare l’unicità. Se questo accade, e lo abbiamo visto spesso negli ultimi tempi, a prevalere è il disprezzo, l’odio.
Uno sguardo umano ed etico sulla fragilità coglie la precarietà e anche la preziosità del volto segnato dal male, del corpo ferito, della storia spezzata e se ne sente interpellato e chiamato in causa. Chi guarda umanamente la fragilità scopre che la fragilità lo riguarda. L’odio, invece, non vede il volto, ma una massa indistinta, così che riesce a odiare gli immigrati, i musulmani, gli ebrei, e così via: non esiste più l’individualità dell’altro, non esiste più il suo volto, vera icona del trascendente nel mondo. Il volto, infatti, è luogo essenziale di cristallizzazione dell’identità. Il volto è epifania dell’umanità dell’uomo, della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità. La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. E gli occhi, specchio dell’anima, ne sono la parte ancora più indifesa, più fragile, che invita, per la sua stessa fragilità ed esposizione alle ingiurie esterne, ad averne rispetto e cura.

Insieme però dici che della  fragilità si può fare buon uso. Ciò che conferisce alla fragilità non sono i suoi limiti ma il posto che i suoi limiti lasciano all’uomo per amare. E’ lo spazio della libertà. Che non è automatico o spontaneo. Come educarsi a questo?
Un’espressione di Cicerone rappresenta bene un uso sapiente della fragilità. Nel suo trattato sull’amicizia, Cicerone scrive: “Poiché le cose umane sono fragili e caduche dobbiamo sempre cercare qualcuno da amare e da cui essere amati. Tolti infatti l’affetto e la benevolenza, ogni gioia è sottratta alla vita”. La fragilità è lo spazio, l’ambito al cui interno avviene la costruzione della nostra umanità. Così come la fragilità delle cose umane è stata l’ambito all’interno del quale Gesù ha costruito la sua umanità e la sua pratica dell’amore, giungendo perfino ad amare il nemico. Questo spazio è quello della libertà e anche della responsabilità. Educarsi a questo è educarsi a quell’etica della cura che comporta l’assunzione della compassione come criterio di giudizio sulla realtà: nella compassione vi è infatti il giudizio di gravità (vedo la situazione di debolezza, di sofferenza grave di una persona e non ne resto indifferente), vi è il giudizio di non colpa (l’altro è vittima, non colpevole), vi è il giudizio eudaimonistico (l’altro e il suo bene è un fine decisivo per la mia realizzazione umana).

Nella fragilità si cerca di custodire le cose essenziali. Anche per la comunità cristiana è lo stesso. Cosa è bene – per i cristiani – custodire gelosamente in questo tempo? Nell’ultimo capitolo parli di “grazia della fragilità”. Cosa intendi? Qual è stato lo sguardo di Gesù sulla fragilità?
Dicendo “grazia” intendo che il riconoscimento umile e realistico della concreta situazione di fragilità propria e altrui, conduce a fare di questa debolezza un elemento spiritualmente ricchissimo, potentemente umanizzante. La fragilità diviene creatrice di legami, agisce come ponte che istituisce rapporti tra diversi. Per quanto indesiderabile, la fragilità può divenire capace di mobilitare una società e di creare rapporti di solidarietà e dar vita a istituzioni che si prendono cura dei più bisognosi. Anche nella crisi del coronavirus abbiamo visto fiorire il sentimento di solidarietà che si esprime sia in manifestazioni gratuite, sia in generosità e dedizione e aiuto verso chi è più bisognoso. Ovviamente, il problema non è la fragilità in sé, ma ciò che se ne fa, il rapporto che istituiamo con essa, e allora, se riconosciuta e accettata, diventa fondamento di un agire etico. La fragilità è lo spazio in cui lo spirito umano può manifestarsi come resiliente, creativo, geniale. Certo, occorre uno sguardo che, invece di perdersi in complottismi e dietrologie, cioè cercando, come sempre nelle soluzioni di tipo moralistico, un colpevole, veda le vittime e si prenda cura di esse. Come ha fatto Gesù. Il cui sguardo non si è mai posato anzitutto sul peccato o sulla colpa dell’uomo, ma sulla sua sofferenza. E da lì è nata la sua azione di cura e di responsabilità per l’umano.

 

PAPA FRANCESCO:  Messaggio Urbi et Orbi – Pasqua 2020

Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!

Oggi riecheggia in tutto il mondo l’annuncio della Chiesa: “Gesù Cristo è risorto!” – “È veramente risorto!”.

Come una fiamma nuova questa Buona Notizia si è accesa nella notte: la notte di un mondo già alle prese con sfide epocali ed ora oppresso dalla pandemia, che mette a dura prova la nostra grande famiglia umana. In questa notte è risuonata la voce della Chiesa: «Cristo, mia speranza, è risorto!» (Sequenza pasquale).

È un altro “contagio”, che si trasmette da cuore a cuore – perché ogni cuore umano attende questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio.

Il Risorto è il Crocifisso, non un altro. Nel suo corpo glorioso porta indelebili le piaghe: ferite diventate feritoie di speranza. A Lui volgiamo il nostro sguardo perché sani le ferite dell’umanità afflitta.

Il mio pensiero quest’oggi va soprattutto a quanti sono stati colpiti direttamente dal coronavirus: ai malati, a coloro che sono morti e ai familiari che piangono per la scomparsa dei loro cari, ai quali a volte non sono riusciti a dare neanche l’estremo saluto. Il Signore della vita accolga con sé nel suo regno i defunti e doni conforto e speranza a chi è ancora nella prova, specialmente agli anziani e alle persone sole. Non faccia mancare la sua consolazione e gli aiuti necessari a chi si trova in condizioni di particolare vulnerabilità, come chi lavora nelle case di cura, o vive nelle caserme e nelle carceri. Per molti è una Pasqua di solitudine, vissuta tra i lutti e i tanti disagi che la pandemia sta provocando, dalle sofferenze fisiche ai problemi economici.

Questo morbo non ci ha privato solo degli affetti, ma anche della possibilità di attingere di persona alla consolazione che sgorga dai Sacramenti, specialmente dell’Eucaristia e della Riconciliazione. In molti Paesi non è stato possibile accostarsi ad essi, ma il Signore non ci ha lasciati soli! Rimanendo uniti nella preghiera, siamo certi che Egli ha posto su di noi la sua mano (cfr Sal 138,5), ripetendoci con forza: non temere, «sono risorto e sono sempre con te» (cfr Messale Romano)!

Gesù, nostra Pasqua, dia forza e speranza ai medici e agli infermieri, che ovunque offrono una testimonianza di cura e amore al prossimo fino allo stremo delle forze e non di rado al sacrificio della propria salute. A loro, come pure a chi lavora assiduamente per garantire i servizi essenziali necessari alla convivenza civile, alle forze dell’ordine e ai militari che in molti Paesi hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze della popolazione, va il nostro pensiero affettuoso con la nostra gratitudine.

In queste settimane, la vita di milioni di persone è cambiata all’improvviso. Per molti, rimanere a casa è stata un’occasione per riflettere, per fermare i frenetici ritmi della vita, per stare con i propri cari e godere della loro compagnia. Per tanti però è anche un tempo di preoccupazione per l’avvenire che si presenta incerto, per il lavoro che si rischia di perdere e per le altre conseguenze che l’attuale crisi porta con sé. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa e favorire, quando le circostanze lo permetteranno, la ripresa delle consuete attività quotidiane.

Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri.

Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni.

Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa.

Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria.

Cari fratelli e sorelle,

indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto.

Con queste riflessioni, vorrei augurare a tutti voi una buona Pasqua.

 

PAPA FRANCESCO:  Non spegniamo la fiammella smorta e lasciamo che riaccenda la speranza
Dal vangelo secondo Marco (4,35-41)
In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.
È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).
Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.
La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.
Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai. Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.
Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, e di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).

 

MAURO MAGATTI:  Vita e morte si dan battaglia. politica, scienza e religione: ora di scelte
Gli storici dicono che le grandi epidemie – insieme alle guerre e alle carestie – hanno la forza di scuotere intere civiltà provocandone la rigenerazione morale e spirituale. La rottura della quotidianità, l’esposizione alla morte, la sospensione delle regole sono i fattori che concorrono a questo risultato.

In effetti, sappiamo che la parola di origine medica “crisi” indica il momento in cui un certo modo di vivere – rivelandosi improvvisamente insostenibile – va sostituito con un altro. Ecco perché crisi significa “separare” “decidere”. Sempre in medicina, il momento “critico” ? quello in cui si deve scegliere tra la vita – come riapertura del futuro – e la morte – come ripiegamento sugli elementi distruttivi che stanno all’origine della crisi.

Noi oggi ci troviamo esattamente qui: sospesi tra la vita e la morte. Tra un passato a cui non si può tornare, un presente terribile e un futuro che non sappiamo immaginare. E che potrà essere molto peggiore o molto migliore. Per andare nella seconda direzione occorre discernere nella situazione che stiamo vivendo gli aspetti di speranza da quelli mortiferi. In quella battaglia a cui assistiamo ogni giorno in cui vita e morte si confrontano a viso aperto.

La politica è più che mai in campo. Semplicemente perché nessuno può affrontare il virus da solo. Per sventare il pericolo abbiamo bisogno delle istituzioni collettive, peraltro messe a durissima prova. Coesione, capacità di decisione e di azione, disponibilità di risorse. A tutti i livelli la politica è potentemente chiamata in causa. Ma deve scegliere: prendere la strada dell’autoritarismo che cancella la libertà o scommettere sulla responsabilità di tutti in un quadro coordinato e coeso? Lasciarsi andare all’egoismo politico (esemplificato dall’assurdo e maldissimulato tentativo di Trump di “comprare”, in esclusiva americana, l’eventuale vaccino al quale sta lavorando una grande azienda tedesca) o farsi parte attiva di una battaglia comune nel nome di quella “Dichiarazione di interdipendenza” che Ulrich Beck qualche anno fa indicava come evoluzione necessaria della politica del XXI secolo?

La prima strada porta alla guerra: scenario che oggi ancor più di ieri non si può escludere, ma si deve evitare con tutte le forze. La seconda via porta a una nuova stagione dove la cooperazione diventa leva e condizione per risolvere i grandi problemi globali che ci accomunano. La scienza (e le sue applicazioni tecniche) si trova anch’essa a dovere scegliere tra la vita e la morte. È sulla base delle indicazioni di alcuni scienziati che il governo inglese ha annunciato di non volere controllare l’epidemia puntando a quella che gli studiosi chiamano “immunità di gregge”. In nome di uno pseudo “realismo” scientista, si disegna così uno scenario apocalittico destinato a causare centinaia di migliaia di morti. Sacrificare i fragili per non pagare costi troppo alti.

Non pensiamo che una democrazia come quella britannica possa permettersi una tale soluzione. Ma è certo che le dichiarazioni dei giorni scorsi fanno capire che la scienza può essere pensata in modo disumanamente cinico, in una logica di puro darwinismo sociale. Eppure, la stragrande maggioranza degli scienziati va nella direzione opposta: nelle ultime settimane abbiamo tutti visto straordinario spirito di abnegazione che ha unito medici, infermieri, ricercatori, studiosi che si stanno letteralmente consumando pur di salvare vite umane. Anche qui dunque ritorna il dilemma: ad affermarsi sarà un’idea di scienza che non si fa scrupolo di passare sopra la morte di migliaia di persone pur di arrivare al proprio obiettivo o una concezione nella quale lo sviluppo della conoscenza viene effettivamente messo al servizio della vita di tutti, a cominciare dai più fragili?

Infine le grandi religioni, anch’esse chiamate in causa. Perché è chiaro che senza capacità di misurarsi con quanto sta accadendo le Chiese non avranno futuro. Anche qui ritorna il dilemma vita e morte. Da un lato, l’attrazione fatale verso le spiegazioni facili: il virus come castigo di Dio che si abbatte sulle nostre società peccatrici; le attese miracolistiche dove riappare l’idea di un Dio potente e vendicatore. Il ‘dio tappabuchi’ di cui ha parlato Dietrich Bonhoeffer. Dall’altro l’immagine di papa Francesco che, zoppicando, attraversa le vie di una Roma deserta per andare a pregare sotto il Crocifisso e l’icona della Madonna: un simbolo universale del ruolo profetico delle grandi religioni oggi. Spogliate dal potere politico, prive di conoscenza scientifica, esse sono chiamate a essere comunità in cerca di quel Dio che – in questi momenti difficili – si fatica a trovare.

Nel momento in cui le nostre certezze si rivelano fasulle, le religioni hanno il compito di restituire spessore antropologico a quella condizione di precarietà che è la condizione costitutiva dell’essere umano. Nella consapevolezza che ‘preghiera’ – dal latino prece – ha la stessa etimologia di ‘precario’. E per questa via riscoprire che, più che la sicurezza – per definizione sempre vulnerabile – l’uomo è sempre alla ricerca della salvezza: come realizzazione della propria vocazione che, senza escluderla, non permette che sia la morte ad avere l’ultima parola sulla vita. Ecco dunque il dilemma: le religioni saranno capaci di sostenere l’esperienza dell’affidamento a un senso che pure, in questi giorni drammatici, non riusciamo a cogliere? Saranno cioè capaci di morire per rinascere, così da permettere all’uomo contemporaneo di non sprofondare nell’angoscia da cui rischia di essere travolto? Non sappiamo quanto questa crisi durerà. Né dove ci porterà. Sappiamo, però, che non saremo più gli stessi di prima. Vita e morte si stanno scontrando. In qualunque ambito della vita sociale ci troviamo a essere, occorre decidere da che parte stare.

 

AMEDEO CAPETTI:  
“Al direttore – Sono un medico della prima divisione di Malattie infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, fino a ieri esperto di terapia antiretrovirale con 650 pazienti sieropositivi per Hiv, catapultato poi come tutti in reparto Covid.

Oggi ho un attimo di pausa e le scrivo per condividere i pensieri che mi affollavano la testa questa mattina mentre guidavo per venire in ospedale.

Il primo pensiero era stridente rispetto al forzato ottimismo che vedo in giro in questi giorni, gli applausi, la nuova idolatria per la classe medica e infermieristica. Sono, a mio parere, tutti comprensibili tentativi di esorcizzare una umanissima paura, ma deboli quanto al contenuto. Ce la faremo, infatti, cosa significa? Che dobbiamo guardare solo alla fine dell’epidemia saltando la drammaticità del presente? E poi: chi ce la faremo? Io e lei che ci scriviamo? Il popolo italiano inteso astrattamente? Tutto questo mi convince poco e mi lascia francamente perplesso. Secondo pensiero. Noto, e trovo che sia un sintomo molto importante, la scomparsa quasi totale del lamento. I miei pazienti invece di lamentarsi mi mandano ogni giorni messaggi per chiedermi come sto e anche per partecipare dell’esperienza incredibile ed eccezionale che sto vivendo. E questa è la vera ragione per cui ho deciso di scriverle.

In effetti quello che io sto vivendo, ma credo sia esperienza anche di molti altri, è l’avverarsi di un fenomeno che non di rado noi medici vediamo in chi è scampato a un pericolo potenzialmente mortale: l’esperienza di aprire gli occhi e accorgersi che nulla è più scontato. Ossia che tutto è dono, dal risveglio del mattino, dal saluto ai propri cari a ogni piccola piega di un quotidiano che per alcuni è tutto da riempire, per altri come me è diventato, se mai era pensabile, più vorticoso di prima.

La grazia di questa nuova coscienza di sé trasforma radicalmente ciò che facciamo, genera stupore, amicizia, ci si guarda e ci si dice: oggi non ci possiamo abbracciare ma un sorriso ci dice ancora di più di quanto potrebbe dire un abbraccio. Questa consapevolezza ci fa diventare partecipi del dramma dei nostri pazienti e non è assolutamente un caso che i miei colleghi mi chiedano di pregare non solo per i loro cari ma anche per i loro pazienti, come non era mai successo prima. E anche questo è contagioso. Ieri mi ha chiamato una signora di Crema per sentire notizie della nonna, ricoverata al Sacco, che è molto grave. Mi ha riferito dell’altra nonna, morta di Covid, e della mamma, in rianimazione a Crema, poi mi ha detto: “Vede dottore, all’inizio io pregavo, ora non prego nemmeno più”. Io le ho risposto: “La capisco, signora, non si preoccupi, pregherò io per lei”. Al sentirlo ha avuto un sobbalzo e ha risposto: “No, dottore, se lo fa lei lo faccio anch’io. E anche per la mia mamma, preghiamo insieme”.

Tutto questo è ricchezza, grazia, che se più gente ne prendesse coscienza potrebbe a mio parere avere anche un grande valore civile: riconoscere che siamo fragili e che tutto ci è donato, a partire dal respiro, oggi così poco scontato, appianerebbe tante divergenze e discussioni inutili.

L’ultimo pensiero è andato al dopo: esperienza comune è che dopo un periodo di grande entusiasmo con il tempo tutto si spegne e i vecchi vizi riemergono, come già lamentava Dante Alighieri rispetto al secolo che lo aveva preceduto. Cosa ci può salvare da questa prevedibile iattura? Per quello che ne capisco io è necessario che questa gratitudine diventi un giudizio riflesso su quello che sta succedendo, che è bene espresso dalla domanda e dalla curiosità che tutti ci facciamo in questi giorni e che ci mette insieme: qual è, al fondo, l’origine di tutto ciò? Perché improvvisamente i nostri occhi si sono aperti e abbiamo iniziato a intravedere il fondo reale delle cose? Dove ci può portare questa esperienza? Dove ritrovare questo sguardo così umano gli uni verso gli altri che in questi giorni vediamo in tante situazioni? Chi ci può aiutare?

Per me l’esperienza dell’irrompere dello stupore nella vita, per cui nulla è mai scontato e tutto è dato, è iniziata molti anni fa, e quando riaccade è come una ripartenza che rinnova in me la certezza dell’origine. Per altri sarà un cammino nuovo. Io non posso e non voglio dare risposte precostituite perché ognuno potrà capire, come me, solo facendone esperienza. Ma posso suggerire la domanda, perché nulla cada nella scontatezza e nella riduzione, estetica o cervellotica. Poi sono arrivato in ospedale”.

 

ALESSANDRO D’AVENIA:  Tempo di miracoli
«I miracoli sono accaduti persino nei giorni più bui del XX secolo. Mia madre ha creato per me un giardino dell’Eden in mezzo all’inferno. Mi costruì attorno un robusto muro d’amore e mi trasmise una sicurezza così grande che non trovai nulla di insolito nella nostra esistenza. Mi fece il regalo più prezioso di tutti: un’infanzia felice. Il fatto che vi sia riuscita entro i confini di un campo di concentramento nazista deve essere considerato un autentico miracolo». Le parole di Raphaël Sommer, famoso musicista praghese, sono dedicate alla madre Alice, pianista sopraffina, morta all’età di 111 anni nel 2014. Avevo già scritto un altro pezzo per la rubrica ma, quando ieri sera, abitando a Milano, ho visto le scene di panico in conseguenza della chiusura di intere regioni e province a causa del virus, ho capito che dovevo raccontare il «miracolo» di cui parla Raphaël.
Era il 1942, racconta la bellissima biografia (Un giardino dell’Eden in mezzo all’inferno), quando Alice Herz-Sommer vide partire sua madre, 72enne, per un campo di concentramento. Non seppe mai più nulla di lei. Alice, pianista di fama internazionale, allora 38enne, si mise a vagare come una disperata per le strade di Praga, che con tutta la Cecoslovacchia era dal 1939 sotto il controllo tedesco.
Fu allora che, in preda alla paura e al dolore, sentì una voce interiore: «Esercitati nei 24 Studi, ti salveranno». Era una sfida assurda: i 24 Studi di Chopin sono pezzi per pianoforte tra i più rivoluzionari e difficili, tanto che nessuno si era mai azzardato ad eseguirli tutti in un unico concerto. Quei brani divennero il credo di Alice, che cominciò a esercitarsi, 8-10 ore al giorno, per eseguirli alla perfezione. Le diedero una corazza, una disciplina e una forza di volontà straordinarie.
«La musica rafforzò il mio ottimismo e salvò la vita a me e al mio bambino.
Era il nostro nutrimento. E, infondendo gioia nelle nostre anime, ci preservò dall’odio, cancellando la paura e rammentandoci le cose belle dell’esistenza anche negli angoli bui di questo mondo».
Quella bellezza salvò lei stessa e molti altri: faceva ciò che sapeva e poteva meglio di come avesse mai fatto. Così vinse la paura, e diede a tanti un motivo per continuare a lottare e non cadere nella disperazione in mezzo a condizioni tremende di fame, malattie, sporcizia e violenza.
Il segreto del miracolo era nella bellezza e nell’umiltà a cui l’aveva educata la musica: «Chi sa accogliere in sé la dignità e la grandezza di un’opera di Bach o Beethoven, non rinuncia forse inevitabilmente ai suoi obiettivi egoistici, di modo che le presunte cose importanti diventano relative?».
I miracoli, quindi, esistono, anche in tempi bui: siamo noi.
Quello di Alice, con i necessari e dovuti distinguo, adesso è chiesto a ciascuno:
fare meglio di prima quello che sappiamo e possiamo fare, per servire gli altri e dare loro speranza, come quelle ragazze che a Torino si sono offerte di fare la spesa per gli ultrasettantenni del loro condominio. Non dobbiamo solo obbedire (e sarà già dura per un popolo che con le regole ha un rapporto difficile) alle voci «esteriori» che ci dicono cosa fare per non aumentare il contagio, ma ascoltare la più sottile voce interiore che ci ricorda chi siamo e che cosa possiamo fare per gli altri, ciascuno nel suo ambito.
Dedicarci a chi abbiamo in casa e, come possiamo, agli altri, ci farà riscoprire i loro bisogni e le nostre priorità.

ALESSANDRO D’AVENIA:  Fragile: maneggiare con cura
«Si mise in testa, lo sventurato, che era fatto tutto di vetro e, quando qualcuno gli si avvicinava levava urla tremende, supplicando con parole e ragionamenti assennati che nessuno gli si accostasse perché l’avrebbe rotto; perché lui era tutto di vetro, da capo a piedi». Così Miguel de Cervantes, in una delle Novelle esemplari, descrive Tomás, un giovane avvocato soprannominato «dottor Vetro» che, come il Don Chisciotte che l’autore scriveva negli stessi anni, è un folle che dice la verità a chi si crede normale. Tomás è stato avvelenato da una donna con un filtro magico che non ha però ottenuto l’effetto desiderato, obbligarlo ad amarla, ma ha sortito tutt’altro esito: sopravvissuto per miracolo, il giovane è infatti convinto di essere diventato di cristallo.
I suoi amici cercano invano di aiutarlo. Lo abbracciano, esortandolo a far caso e a osservare come non si rompesse.
In queste giornate drammatiche ci sentiamo di vetro anche noi.
Fragili e impauriti da ogni contatto, ci siamo dovuti chiudere in casa.
L’effetto è tanto inatteso quanto dirompente: le relazioni si mostrano nella loro nuda verità. Gli spazi stretti e il tempo largo provocano inevitabili attriti e scontri, eppure solo quando diventiamo trasparenti riscopriamo la qualità delle nostre relazioni.
É lo stesso Tomás a offrirci la soluzione, infatti grazie alla sua follia, il giovane ha acquisito il potere della trasparenza: «Chiedeva che gli parlassero a distanza e gli domandassero pure quel che volevano perché avrebbe risposto a tutto con molto più senno, giacché era un uomo di vetro e non di carne; infatti il vetro, in quanto materia sottile e delicata, permetteva all’anima di operare con maggior prontezza ed efficacia rispetto al corpo, materia pesante e terrestre». Nel racconto di Cervantes, la fama di saggezza e schiettezza di Tomás si diffonde, e tantissimi si recano da lui per chiedergli consiglio o semplicemente per ascoltare la sua lucida pazzia:
quel giovane dice la verità senza mezzi termini, smascherando menzogne e finzioni degli interlocutori. La stessa cosa può accadere a noi in questi giorni di relazioni «inevitabili». Da quanto tempo non affrontiamo ferite, silenzi, bugie, rancori, segreti, che ci hanno allontanato da chi abita con noi sotto lo stesso tetto?
Adesso, proprio perché non ci possiamo più nascondere, come il dottor Vetro abbiamo la possibilità di rendere trasparente ciò che era stato oscurato dalle attività esterne quotidiane o opacizzato da ripetitive routine casalinghe.
E la verità ritrovata potrà essere arma o cura.
Sta a noi scegliere cosa fare della nostra condizione di uomini e donne di prezioso vetro di Murano: sottoposti al fuoco incandescente dell’emergenza, siamo costretti a tornare malleabili. Sapremo rimodellare le relazioni grazie a questa inattesa tenerezza o, rimanendo rigidi, ci frantumeremo a vicenda?
Il tempo da passare insieme sembrerà lunghissimo, ma è un nulla in confronto a quello che può significare per la vita futura. Conosco famiglie che stanno riscoprendo la bellezza di stare insieme con passatempi dimenticati come i giochi da tavola o semplicemente consumando i pasti in compagnia; un marito che deve proteggere la moglie immunodepressa con una delicatezza nuova; fratelli incollati a serie TV che in altre occasioni non avrebbero mai guardato insieme; coppie che riscoprono interessi comuni dimenticati strada facendo; padri che leggono storie ai figli; madri che sprigionano la loro creatività per impegnare bambini chiusi in casa per tante ore; persone dello stesso condominio che si aiutano per la spesa o altre necessità… Possiamo imparare di nuovo a «maneggiare con cura» la fragilità degli altri:
il virus è letale anche per l’individualismo che quotidianamente ci avvelena.
Alla fine del racconto Tomás guarisce, ma tutti continuano a preferire il bizzarro dottor Vetro che diceva la verità senza mezzi termini: così è costretto a migrare dove nessuno lo conosce per iniziare una nuova vita. E noi sapremo fare tesoro di questi giorni di verità, anche se difficili, faticosi, a tratti impossibili, come un’occasione irripetibile di verità nelle relazioni fondamentali? Siamo stati costretti a diventare di vetro, cioè più autentici di quanto crediamo di essere normalmente dietro corazze, abitudini e ruoli che ci fanno sentire sicuri, ma spesso ci rendono oscuri proprio con le persone che hanno diritto alla nostra tenera e fragile trasparenza, per poterla amare.

ALESSANDRO D’AVENIA:  Amuchina
Continui a sfregarti le mani per eliminare ogni atomo di impurità.
Cerchi una purezza impossibile sulla Terra, perché la Terra è terra: me lo ha ricordato mercoledì scorso il rito delle ceneri, polvere sono e polvere ritornerò.
Allora ti guardi le mani che dai sempre per scontate, tranne quando ti rivelano a che cosa ti aggrappi per non affondare: ma io sono davvero solo polvere?
Per gli antichi di puro c’era solo il vino non tagliato con acqua e il divino non tagliato col tempo, e quindi immortale: a noi mortali la vita «in purezza» non è data.
Il tempo ci rende «sanamente impuri», in lotta continua contro la morte, e per questo fecondi e creativi nel costruire la vita. Un virus ci ha ricordato questa impurità, sgretolando la febbrile routine e mostrandoci le fondamenta su cui viviamo, perché è di fronte alla paura della morte che si vede chi siamo veramente. Le fondamenta di una società che si dice «progredita» appaiono incerte e siamo costretti a chiederci su cosa abbiamo costruito, in cosa abbiamo avuto fede e, magari, come ricostruire.
Nel Decameron del Boccaccio, emergono le fondamenta che lo scintillante autunno del Medioevo consegnava all’Occidente come antidoto alla morte.
Fortuna, Amore e Ingegno sono infatti gli argomenti attorno a cui ruotano i racconti (e la vita), perché Amore e Ingegno sono le due forze umane capaci di contrastare la Fortuna, il caos dell’intera vicenda umana.
E noi? Assaltiamo supermercati e farmacie, ci isoliamo, consultiamo di continuo aggiornamenti e informazioni. Non si sa a chi credere e, in assenza di verità, la paura, senza un preciso oggetto, diventa angoscia, che rende l’agire assurdo.
Alla Fortuna non opponiamo né Amore né Ingegno: non ci siamo allenati in tempi di pace. Ci difendiamo dalla morte accumulando cose, medicine, informazioni: abbiamo imparato queste risposte. E così viviamo nella paura senza interrogarla, come invece è chiamata a fare una manciata di polvere animata dal soffio di Dio.
Ci crediamo così progrediti che, quando sbeffeggiamo chi è retrogrado, usiamo l’aggettivo «medioevale». Ma forse se ci riscoprissimo eredi di un umanesimo che ha lasciato un «mondo» di bellezza, proprio perché sapeva che – divino e umano – sono entrambi necessari per fare il «mondo», apriremmo vie nuove contro la morte. L’Amuchina rende le mani pure, sterili, ma sterile è anche chi non crea e ricrea la vita: non può e non deve bastare per quello che le nostre mani possono ricevere, dare e fare.

 

LA LUCE DIETRO ALLE OMBRE….
Ho visto degli arcobaleni disegnati dai bambini con le loro mamme esposti fuori da tante finestre……
Ho sentito mio figlio pregare per chi in questi giorni non puo’accompagnare nella morte un proprio caro all’ospedale…
Ho visto una scritta sulla vetrina di un negozio “Coraggio, andrà tutto bene!”
Ho sentito studenti che volevano partecipare anche alle videolezioni di classi non loro per la voglia di imparare, di parlarsi, di vedersi, di fare due chiacchiere…
Ho visto un foglio sui campanelli di un condominio “Se qualcuno ha bisogno per la spesa, telefoni al numero…”
Sento mio figlio telefonare tutti i giorni ai nonni per sapere come stanno…
Ho visto educatori che per tenere vivo il rapporto con i loro ragazzi hanno “architettato” videochiamate di gruppo, momenti di preghiera in simultanea…
Ho sentito un’ amica chiedermidi recitare insieme a lei alle 19 il rosario per il suo papà stando ognuno a casa sua…
Ho visto insegnanti che per il desiderio di prendersi cura dei propri alunni son diventati improvvisamente esperti in didattica a distanza…
TO BE CONTINUED…

 

FRANCESCA MORELLI:   “Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte. Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare…
In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l’economia collassa, ma l’inquinamento scende in maniera considerevole. L’aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira…

In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class.
In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all’altro, arriva lo stop. Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con  un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro. Sappiamo ancora cosa farcene?

In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia.
In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto. Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato?

In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunita, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro.

Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci. Perchè col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto.
Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.”